Legge sull’aborto in Italia: cosa dice esattamente "la 194"

Cosa dice esattamente la legge sull'aborto, la 194 del maggio 1978? Alla luce dei fatti recenti capirne davvero il significato è fondamentale, per comprendere anche perché garantire la legalità del diritto all'interruzione di gravidanza sia estremamente importante.

La questione dell’aborto non passa mai di moda, e anzi, di volta in volta la sua legittimità viene messa in discussione da leggi iper restrittive, come quelle approvate negli ultimi anni in Georgia, Alabama e Louisiana o in Polonia, dove l’interruzione di gravidanza è praticamente stata del tutto eliminata.

Da un lato le ragioni dei pro-life, tendenzialmente conservatrici e religiose, dall’altra l’indignazione delle donne che hanno combattuto nei decenni scorsi affinché la legalizzazione dell’interruzione di gravidanza diventasse fatto concreto, o che di queste sono le figlie, sorelle o nipoti.

In qualunque modo la si pensi, perché la questione chiaramente non è far prevalere un’opinione su un’altra, va però detto che le leggi sull’aborto hanno regolamentato un argomento assai spinoso e delicato, garantendo alle donne che scelgono di interrompere la gravidanza di potersi affidare a mani esperte e competenti, e liberandole dal ricorso alla clandestinità di cui spesso finivano per restare vittime.

Il fatto importante, a ben guardare, è la presenza stessa del diritto, che lascia la libertà di potervi ricorrere o meno; è questo che rende la legge 194, così come le altre giunte nel corso degli anni nei vari paesi, un passo importante di civiltà, cui si è arrivati dopo lotte non indifferenti e attraverso tappe spesso difficili.

La legge sull’aborto: breve storia delle lotte femministe

legge sull'aborto
Fonte: web

A incarnare il primo femminismo, ovvero il movimento nato per l’emancipazione femminile, furono sicuramente le suffragette, le donne che lottavano per estendere il diritto di voto anche alla parte di popolazione femminile. Partite dalla Gran Bretagna, la loro battaglia coinvolgerà pian piano le donne del resto d’Europa, anche se in questa fase il femminismo si concentra prevalentemente sulle rivendicazioni di natura politica, e sul diritto di famiglia.

Guadagnato il diritto di voto (con alcune eccezioni clamorose, come la Svizzera, dove le donne lo otterranno solo dopo il referendum del 1971), il movimento femminista riparte negli anni ’60 soprattutto dagli USA, allargandosi a temi giudicati scandalosi, come la sessualità, lo stupro, la violenza domestica, l’aborto. In quegli anni – il 1961 – negli Stati Uniti viene messa in commercio la pillola contraccettiva, che garantisce un controllo della fertilità autonomo alle donne, mentre un decennio più tardi comincia, in Italia, la lotta per legalizzare l’interruzione di gravidanza, ma non solo: viene chiesta anche la riforma del diritto di famiglia, con l’abolizione, ad esempio, del delitto d’onore e del matrimonio riparatore, entrambi cancellati con la legge 442 del 5 settembre 1981.

Con la Legge 22 maggio 1978, n.194, invece, viene garantito il diritto all’aborto.

La legge sull’aborto in Italia: cosa dice davvero la 194

Prima del 1978, l’IVG (Interruzione Volontaria di Gravidanza) era considerata, secondo l’art. 545 e segg. del Codice Penale un reato in queste circostanze:

  • se veniva causato l’aborto di una donna non consenziente (o consenziente, ma minore di quattordici anni), la pena era la reclusione da sette a dodici anni (art. 545);
  • se veniva causato l’aborto di una donna consenziente la pena era la reclusione da due a cinque anni, comminati sia all’esecutore dell’aborto, sia alla donna stessa (art. 546);
  • se l’aborto era procurato si era puniti con la reclusione da uno a quattro anni (art. 547);
  • se si istigava all’aborto, o si fornivano i mezzi per procedere ad esso, c’era la reclusione da sei mesi a due anni (art. 548).

Prima di giungere all’approvazione della vera e propria legge, tuttavia, nel nostro Paese ci fu una fase evolutiva, necessaria perché poi si giungesse alla legalizzazione dell’IVG.

A portare avanti la lotta per garantire il diritto all’aborto furono soprattutto i Radicali, e in particolare la loro campagna referendaria e l’autodenuncia, nel 1975, da parte di Gianfranco Spadaccia, segretario del Partito Radicale, Adele Faccio, fondatrice del Centro d’Informazione sulla Sterilizzazione e sull’Aborto (CISA), e la militante radicale Emma Bonino.

Il 5 febbraio del 1975 Marco Pannella e Livio Zanetti, direttore de L’espresso, presentavano alla Corte di Cassazione la richiesta di un referendum abrogativo degli articoli del Codice Penale sopra citati, riguardanti i reati di aborto su donna consenziente, di istigazione all’aborto, di atti abortivi su donna ritenuta incinta, di sterilizzazione, di incitamento a pratiche contro la procreazione, di contagio da sifilide o da blenorragia, proposta di referendum che raccolse più di 70 mile firme, venendo però bloccata dallo scioglimento delle Camere disposto dal presidente Leone, nonostante fosse già stata fissata la data per la consultazione referendaria, il 15 aprile 1976. Prima di arrivare alla legge, però, un importantissimo passo in avanti era stato fatto con una storica sentenza della Corte Costituzionale, la numero 27 del 18 febbraio 1975, che aveva consentito il ricorso all’IVG per motivi gravi, distinguendo per la prima volta la salute della madre da quella del feto, e non ritenendole equiparabili.

La condizione della donna gestante è del tutto particolare e non trova adeguata tutela in una norma di carattere generale come l’art. 54 c.p. che esige non soltanto la gravità e l’assoluta inevitabilità del danno o del pericolo, ma anche la sua attualità, mentre il danno o pericolo conseguente al protrarsi di una gravidanza può essere previsto, ma non é sempre immediato. La scriminante dell’art. 54 c.p. si fonda sul presupposto d’una equivalenza del bene offeso dal fatto dell’autore rispetto all’altro bene che col fatto stesso si vuole salvare. Ora non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi é già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare.

Venne quindi ritenuto incostituzionale l’art. 546 c.p

nella parte in cui non prevede che la gravidanza possa venir interrotta quando l’ulteriore gestazione implichi danno, o pericolo, grave, medicalmente accertato […] e non altrimenti evitabile, per la salute della madre.

La precisazione della Corte è stata

l’esenzione da ogni pena di chi, ricorrendo i predetti presupposti, abbia procurato l’aborto e della donna che vi abbia consentito non esclude affatto, già de jure condito, che l’intervento debba essere operato in modo che sia salvata, quando ciò sia possibile, la vita del feto.

Benché alcune forze politiche cercassero soprattutto un bilanciamento tra la necessità di impedire gli aborti clandestini, compiuti dalle mammane, ed evitare la liberalizzazione totale dell’interruzione di gravidanza voluta dai movimenti femministi e dai Radicali, nel 1978 la 194, dal titolo Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, veniva portata alla Camera e al Senato, con le firme in calce del Presidente del Consiglio Andreotti e dei ministri Anselmi, Bonifacio, Morlino e Pandolfi. La legge prevedeva il pieno diritto all’autodeterminazione della donna ma anche quello del personale sanitario di fare obiezione di coscienza.  Con la legge del 22 maggio 1978, n.194 sono venuti a cadere i reati previsti dal titolo X del libro II del codice penale con l’abrogazione degli articoli dal 545 al 555, oltre alle norme di cui alle lettere b) ed f) dell’articolo 103 del T.U. delle leggi sanitarie.

Con la norma, nei casi previsti dalla legge, a ogni donna è concesso di ricorrere all’interruzione di gravidanza in una struttura pubblica (ospedale o poliambulatorio convenzionato con la Regione di appartenenza) nei primi 90 giorni di gestazione, mentre tra quarto e quinto mese è possibile ricorrere esclusivamente all’aborto di natura terapeutica.

Questo il prologo della legge (art.1):

Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio.
L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite.
Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite.

I consultori, il cui compito è trattato nell’art.2, hanno, nei confronti della donna in gravidanza, il dovere di:

  • informarla sui diritti a lei garantiti dalla legge e sui servizi di cui può usufruire;
  • informarla sui diritti delle gestanti in materia laborale;
  • suggerire agli enti locali soluzioni a maternità che creino problemi;
  • contribuire a far superare le cause che possono portare all’interruzione della gravidanza.

L’interruzione di gravidanza entro i 90 giorni è consentita alla donna

che accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito (art. 4).

Nell’art. 5 è specificato che il padre del concepito non possa in alcun modo intromettersi nella IVG e non sia titolare di alcun diritto sul feto. La figura del padre è chiamata in causa esclusivamente come presenza presso il consultorio, struttura sanitaria o medico di fiducia a cui la donna si rivolge, e solo nel caso in cui questa vi acconsenta (comma 1 e 2).

L’art. 6 regola l’interruzione di gravidanza dopo i 90 giorni nei casi in cui:

  • la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
  • siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

L’art. 12 regola invece la posizione delle minori e delle donne interdette, che devono ricevere l’autorizzazione del tutore o del giudice tutelare per poter effettuare la IVG.

[…] nei primi novanta giorni, quando vi siano seri motivi che impediscano o sconsiglino la consultazione delle persone esercenti la potestà o la tutela, oppure queste, interpellate, rifiutino il loro assenso o esprimano pareri tra loro difformi, il consultorio o la struttura socio-sanitaria, o il medico di fiducia, espleta i compiti e le procedure di cui all’articolo 5 e rimette entro sette giorni dalla richiesta una relazione, corredata del proprio parere, al giudice tutelare del luogo in cui esso opera. Il giudice tutelare, entro cinque giorni, sentita la donna e tenuto conto della sua volontà, delle ragioni che adduce e della relazione trasmessagli, può autorizzare la donna, con atto non soggetto a reclamo, a decidere la interruzione della gravidanza.

La legge garantisce inoltre l’anonimato di chi ricorre all’interruzione di gravidanza, e che “il medico che esegue l’interruzione della gravidanza è tenuto a fornire alla donna le informazioni e le indicazioni sulla regolazione delle nascite” (art. 14).

Nella medesima legge è regolata anche l’obiezione di coscienza, la cui eccezione principale è rappresentata dai casi in cui l’intervento sia “indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo” (art. 9, comma 5).

Chiunque non volesse ricorrere all’aborto può inoltre dare alla luce un bambino che sarà affidato dopo il parto all’ospedale e messo in adozione, restando sempre anonima.

La legge 194 è stata confermata dagli elettori con una consultazione referendaria il 17 maggio 1981, con l’88,42% dei voti contrari all’abrogazione.

La legge sull’aborto all’estero: i fatti recenti

legge sull'aborto all'estero
Fonte: web

Come detto, negli ultimi tempi alcuni fra gli stati più conservatori degli USA hanno promulgato delle leggi che minano irrimediabilmente la libertà delle donne di ricorrere all’IVG. Benché queste leggi siano, probabilmente, destinate a finire di fronte alla Corte Suprema che dovrà valutarne la costituzionalità, è comunque preoccupante pensare a quanto un possibile ritorno all’illegalità dell’aborto – di fatto, è questo che stabiliscono le leggi americane appena approvate – non elimini certamente il problema, ma semmai rigetti le donne che vorrebbero farvi ricorso nell’obbligo della clandestinità, dove tornerebbero, come nel passato, ad affidarsi a strutture abusive e naturalmente inadeguate, mettendo spesso a repentaglio la propria vita.

In questo articolo abbiamo esaminato le leggi di Georgia, Alabama e Louisiana e le altre esistenti nel mondo in materia di aborto.

Ancor più recentemente, il 27 gennaio 2021, c’è stato il caso della Polonia, che ha vietato l’aborto anche in caso di malformazioni del feto; adesso nel Paese restano in piedi solo i motivi legati a gravidanze causate da stupro o incesto e il pericolo di vita per la donna.

Anche nel nostro Paese, ci sono stati comunque dei pericolosi passi indietro, con la proposta di legge regionale avanzata dalla consigliera umbra Paola Fioroni, e avallata dalla presidente di regione Donatella Tesei che già nel 2019 aveva firmato il “Manifesto valoriale a tutela della vita nascente”, che mira in sostanza ad apportare sostanziali modifiche in ottica antiabortista e pro-life al Testo Unico in materia di sanità e servizi sociali.

Senza contare il nodo dell’aborto farmacologico, che in piena emergenza sanitaria dovuta alla pandemia alcune strutture ospedaliere italiane hanno sospeso, e su cui solo da poco è intervenuto, con delle modifiche, il Ministero della Salute: sono infatti dell’agosto 2020 le nuove Linee di indirizzo, che aggiornano quelle del 24 giugno 2010, che consentono l’aborto farmacologico fino a 63 giorni, ovvero 9 settimane compiute di età gestazionale, e di effettuarlo presso strutture ambulatoriali pubbliche adeguatamente attrezzate, funzionalmente collegate all’ospedale ed autorizzate dalla Regione, oppure in consultori, o in regime di day hospital. Prima di questa decisione per abortire in maniera farmacologica, diversamente dalla gran parte dei Paesi europei, era necessario un ricovero di tre giorni.

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