L'aborto terapeutico: cos'è e com'è regolato dalla legge

La legge 194 che regola l'interruzione di gravidanza in Italia paventa la possibilità di abortire anche dopo il trimestre; in questo caso si parla di aborto terapeutico ma, com'è ovvio, può essere praticato solo in casi eccezionali e particolarmente rischiosi. Ecco quali e quali sono le conseguenze.

Come sappiamo, nel nostro paese l’interruzione di gravidanza deve essere effettuata entro il terzo trimestre; esistono tuttavia eccezioni garantite dalla legge, seppur da interpretare in maniera ovviamente restrittiva, per cui tale termine può essere posticipato, laddove sussistano possibili condizioni rischiose per la salute mentale o fisica della gestante.

In questi casi si parla di aborto terapeutico, ma vale la pena sottolineare, proprio perché le previsioni di legge devono necessariamente essere lette in una chiave limitativa, che per praticarlo occorre il verificarsi di specifiche circostanze: è anzitutto obbligatoria una certificazione medica in tal senso, e l’intervento è da ritenersi possibile solo fintanto che non sia possibile la vita autonoma del feto.

Cos’è l’aborto terapeutico

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Fonte: web

Per la legge 194 del 1978, che regola l’interruzione di gravidanza nel nostro paese, l’aborto può essere praticato anche dopo i primi novanta giorni di gestazione; si parla in questo caso di aborto terapeutico.
Secondo le disposizioni di legge l’interruzione terapeutica di gravidanza può essere praticata in due casi specifici:

  • Laddove la gravidanza e il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; ad esempio, ci si riferisce a casi di emorragie dovute al distacco della placenta, di rottura prematura del sacco amniotico con conseguenti infezioni generalizzati, oppure di insorgenze di condizioni – come certe patologie cardiache – che renderebbero per la donna estremamente pericoloso portare avanti la gravidanza.
  • Laddove siano presenti processi patologici, compresi quelli relativi a malformazioni o malattie del nascituro, che possono rappresentare un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. In entrambi i casi vale la pena notare che la gravidanza non si interrompe per possibili malformazioni o patologie congenite del feto, ma per salvaguardare la salute della donna, dato che il fatto che il bambino sia malato potrebbe comportare significative ripercussioni negative sulla gestante, mettendone in discussione appunto l’integrità fisica o mentale. Un altro aspetto, proprio legato a quest’ultimo punto, è che non vengono valutati solo gli ipotetici rischi di carattere meramente fisico, ma vengono tenuti in alta considerazione anche i possibili fattori negati a livello psicologico.

In entrambi i casi, comunque, è necessaria la certificazione di un medico a testimoniare che esistono concreti pericoli per la vita della donna, oppure condizioni fetali capaci di mettere gravemente a rischio la sua salute, queste ultime individuate grazie a specifici esami, come ecografie, amniocentesi, villocentesi.

Pur non specificando la legge un termine preciso per praticare l’aborto terapeutico, generalmente si tende a riferirsi al periodo temporale in cui il feto non abbia ancora sviluppato la possibilità di vivere autonomamente al di fuori dell’utero; ciò è importante perché si parte dal presupposto che, se il feto dovesse nascere vivo, la legge impone che debba essere rianimato, cosa che peraltro resta uno dei punti  più controversi e discussi della norma stessa. Tendenzialmente comunque il termine è fissato a 22 settimane più 2-3 giorni, dato che esistono casi, seppur sporadici, di feti di 23 o 24 settimane sopravvissuti. Dopo tale periodo, però, qualora una malformazione non fosse stata individuata prima del termine consentito (ovvero entro le 22 settimane) non è più possibile far nulla, e chi volesse praticare comunque l’interruzione di gravidanza deve rivolgersi all’estero.

Importante, inoltre, è evidenziare che l’aborto terapeutico dopo le 22 settimane – o comunque quando esistono concrete possibilità di vita autonoma da parte del feto – è possibile nel nostro paese solo ed esclusivamente nel caso in cui sia messo in serio pericolo la vita della donna, e in questo caso il medico, come dispone la legge, deve assumersi la piena responsabilità e fare tutto ciò che è nelle sue capacità per salvare la vita del feto, adottando tutte le misure idonee e necessarie.

Come avviene l’aborto terapeutico

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Fonte: web

Fino alle 15-16 settimane di gravidanza, l’interruzione viene praticata in modo molto simile a quanto accade nei primi 90 giorni, ovvero con uno svuotamento dell’utero effettuato in anestesia generale, che può può avvenire per “aspirazione” (isterosuzione) o per “raschiamento” (revisione).

Dopo tale periodo, invece, per abortire è necessario indurre un travaglio, detto appunto abortivo, che porta all’espulsione del feto. Tale pratica può avvenire attraverso due strade diverse:

  • Attraverso la somministrazione periodica di prostaglandine per via vaginale; farmaci del genere inducono l’utero a contrarsi e stimolano il travaglio, anche se i tempi dell’induzione e del travaglio stesso dipendono molto dalla risposta individuale al farmaco. In generale, però, il parto dovrebbe avvenire in un arco di tempo compreso tra alcune ore e due giorni (nei casi più rari).
  • Attraverso l’assunzione per via orale di mifepristone, la pillola RU486, seguita dalla somministrazione di prostaglandine per via vaginale. La pillola sensibilizza l’utero all’azione delle prostaglandine dimezzando di conseguenza i tempi del travaglio abortivo.

Inutile negarlo, il travaglio abortivo può essere molto doloroso, quanto il travaglio fisiologico del parto. Sulla carta si potrebbe fare molto per evitare questo dolore, dato che non è necessario prendere tutte le precauzioni di salvaguardia del feto che si prendono nel caso di un parto normale, tuttavia le strategie di controllo del dolore che si possono seguire variano molto da centro a centro. Non sempre è garantita l’epidurale, ad esempio, e non tutti i centri che eseguono aborti terapeutici seguono il protocollo della RU486 e successivamente della prostaglandine, finendo con l’aumentare il dolore.

Nel nostro paese uno degli ostacoli più grandi che una donna può incontrare rispetto alla volontà di procedere con un aborto terapeutico è quello degli obiettori di coscienza, medici, infermieri e personale sanitario che non sono tenuti a indurre il parto in virtù delle proprie convinzioni personali; in ogni caso, comunque, sono tenuti a prestare assistenza alla donne durante il travaglio e il parto.

Ogni donna, nel momento drammatico di un aborto terapeutico, deve sapere che è suo pieno diritto chiedere una terapia del dolore efficace.

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