"Meglio morire che ricominciare": la scelta di Alessandro Piperno di non avere figli

Non ci sono solo donne che non vogliono figli, molti sono anche gli uomini che non vogliono ricoprire il ruolo di padre. Eppure di loro si parla sempre troppo poco, come se la genitorialità fosse una prerogativa femminile. Lo scrittore Alessandro Piperno spiega in una lettera perché lui non si è mai sentito tagliato per la paternità, e ha scelto attivamente di non sperimentarla.

Spesso si pensa che tutto ciò che ruota attorno al concetto di genitorialità sia una prerogativa esclusivamente femminile.  Si tende, cioè, più frequentemente a parlare di maternità che non di paternità, e allo stesso modo, sul versante opposto, ci si concentra prevalentemente sulla scelta di una non maternità piuttosto che su una di non paternità.

Insomma si è implicitamente portati a pensare che la decisione di non mettere al mondo un figlio dipenda nella quasi totalità dei casi dalla donna, o comunque si guarda a una scelta del genere come una problematica tipicamente femminile. Forse è più facile parlare di donne che non vogliono diventare madri perché partiamo dal presupposto che a portare in grembo per nove mesi un figlio sia la donna, pensando, quindi, che tutte le “incombenze” del caso siano loro. Ma questa, che peraltro è basata su un fatto puramente fisiologico, non può certamente essere un ragione sufficiente per pensare che la questione sia una peculiarità tipicamente da donna, da cui gli uomini sono esclusi o in cui recitano un ruolo marginale.

Ma tant’è: si parla sovente di donne che hanno scelto di non diventare madri, ma non altrettanto spesso di uomini che hanno scelto di non essere padri. Perché? In fondo, a loro spetta lo stesso identico diritto di una compagna di decidere di non diventare genitori, hanno la medesima voce in capitolo benché non portino nel proprio grembo un figlio. E ce ne sono, e tanti, di uomini che hanno coscientemente deciso di rinunciare alla paternità, non subendo passivamente la scelta della partner ma dichiarando consapevolmente di non volere figli. Perché non si sentono tagliati in quel ruolo, perché non vedono nell’arrivo di un figlio il completamento della propria persona, non avvertono questo step come uno di quelli fondamentali per considerarsi realizzati. Esattamente le stesse ragioni che sono alla base della decisione delle donne.

Niente di diverso, dunque, eppure degli uomini che non vogliono figli si parla poco o niente. A gettare luce su questa parte “sommersa”di umanità ci ha provato lo scrittore Alessandro Piperno, in una lettera idealmente indirizzata ad Annalena Benini per Il Foglio.

Il guaio nel non avere figli – scrive Piperno – è che, in una parte molto seriosa di te stesso, senti di non aver compiuto fino in fondo il tuo destino biologico, ammesso che ce ne sia uno. […] La paternità mancata ti preclude la chance (non so mica se così allettante) di essere adulto. Rimani figlio per tutta la vita; e quando i tuoi genitori vengono meno, invecchi in un secondo, diventando uno di quei patetici malmostosi vegliardi da ospizio che intervistati per strada da qualche inviato de L’aria che tira dicono cose amare, nostalgiche e qualunquiste”.

Eppure, Piperno dimostra di non avere il timore di “reggere il confronto” con quella parte che, socialmente, sembrerebbe quasi imporre la paternità o, più in generale, la genitorialità. E anzi è molto lucido quando afferma che

“Ciononostante mi ostino a considerarmi renitente alla paternità.  Non solo, ma arrivo a dirti che guardandomi intorno vedo parecchi genitori che avrebbero fatto meglio a usare il preservativo quella fatidica volta.

Padri che non hanno alcuna stoffa, nessuna vocazione, privi di tatto e magnanimità, autentici cazzoni da batteria. Madri che credevano che i figli avrebbero risolto ogni problema, che in nome di questa sciocchezza hanno mollato carriere floride, e che ora si sentono tradite dai loro stessi sogni incarnati: questi adolescenti musoni, ingrati e rompipalle.

Meglio non essere genitori piuttosto che diventarlo e non esserne capaci, o passare una vita nel rimpianto di ciò che si è perduto? Dunque meglio restare aggrappati per sempre a quell’effimera ma piacevole sensazione di eterna giovinezza che ti è data, come spiega Piperno, dal non compiere il passaggio fatidico da figlio a genitore, anziché compierlo ma quasi forzatamente, più perché secondo i crismi della società “devi”?

Certo, il discorso è ampio e aperto a pareri e opinioni diverse, ed è uno di quelli che non riuscirà mai a mettere d’accordo universalmente tutti; in fondo, è giusto così, che ciascuno compia le sue scelte senza sentirsi in dovere di passare sotto il giudizio altrui, in qualunque direzione esse vadano. Piperno motiva la sua scelta con una non sopportazione mal celata per i genitori che lui definisce “fieri, quelli che ti parlano dei loro marmocchi come novelli Einstein, illuminati dalla grazia dell’ironia precoce e di una sensibilità ferita o fin troppo precocemente esacerbata“, e la sensazione quasi nauseata al ricordo della scuola.

“In un attimo mi sono ricordato quanto detestassi andare a scuola: levatacce, mattine trascorse ad ascoltare sciocchezze destituite di ogni interesse, sotto la minaccia di umilianti interrogazioni, il compagno prepotente, la bella della classe, il professore frustrato, i brutti voti, le pagelle, i compagni della Fgci, i camerati del Fronte della gioventù, Ippolito Nievo, i compiti per le vacanze, La ragazza di Bube… Che orrore!”

Dunque perché augurare la stessa sorte a un figlio? Dopo tutto, a ben guardarlo il pezzo di Piperno non è un manifesto dell’anti-genitorialità fondato sui sani principi dell’individualismo, ma al contrario, ha tutto il tenore di un atto di altruismo, forse del vero slancio di generosità. Perché, chiude lo scrittore vincitore del Premio Strega 2012,

Se un genio della lampada mi offrisse l’opportunità di ricominciare da capo, tornare ragazzo, gli direi di non rompere e di togliersi dai piedi. Meglio morire che ricominciare. Allora, cara Annalena, ho capito perché non ho mai voluto figli. È che  non auguro l’infanzia a nessuno, figurarsi a un figlio.

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