"Quando è nata lei, una parte di me è morta". Diventare madre ti cambia

Diventare mamma è un dono. Ogni donna affronta l'essere mamma in maniera diversa. Vogliamo raccontarvi la storia di Lucy Jones e della sua esperienza raccontata in lungo post scritto da lei.

Questo articolo è la traduzione di parte di un lungo post scritto da Lucy Jones su Somesuch Stories. Abbiamo deciso di tradurlo e condividerlo perché mostra un altro modo di vedere e vivere la maternità, che non ci rende madri meno brave, e ci introduce nel sentiero complesso della depressione post parto (che può sopraggiungere già durante la gravidanza). Buona lettura!

“Per molti anni, avere un figlio era la cosa che desideravo più di tutto. A differenza di altri desideri, non riuscivo a capire il motivo. È stato oltre il linguaggio: voglio studiare perché bla bla bla, voglio lavorare perché bla bla bla. Ovvio, facile. Ma perché volevo un bambino? L’ho semplicemente fatto. Le mie cellule l’hanno fatto. Per quanto io mi preoccupassi di mettere al mondo un’altra impronta, non ho potuto mettere a tacere una vita-desiderio che avevo messo da parte. Poi, è arrivato il momento giusto.

Quando cerco di spiegare le complesse emozioni della gravidanza, le parole mi sfuggono. Sono consumata dalla paura e dal desiderio di avere un bambino. Una paura che morirà dentro di me; spero che quando nascerà lei sarà viva. La mia felicità è ancorata ad un qualcosa che non posso controllare. Non è del tutto confortevole. Non si tratta del settimo cielo color pastello di cui parlano i libri di gravidanza. Improvvisamente, ho molto più da perdere.

Sono rimasta incinta in un giorno di Dicembre e sono diventata immediatamente malata per cinque mesi. Dal momento in cui mi svegliavo fino a quando andavo a dormire, avevo la nausea. Almeno ogni due giorni, vomitavo la bile dello stesso colore dei girasoli. Mi sono buttata nella letteratura, cercando parole per ritrovare me stessa – noi stesse – me ne sono fatta una ragione della stranezza del condividere il mio corpo con un’altra persona e del senso del cambiamento in sé. C’è un nuovo, pratico linguaggio da imparare: episiotomia, sovratensioni, chiudersi, ammutolirsi, dilatazione, D-MER o Disforica eiezione del latte (il calo improvviso della dopamina quando alcune donne iniziano ad allattare), intervento, labbro anteriore.

Io e mio marito siamo andati in ospedale. Ero piegata in due dal dolore. Il mio corpo si era contratto ogni quattro o cinque minuti durante le precedenti ventidue ore. Quando i muscoli del mio utero si stringevano, l’energia si sovraccaricava in tutto il corpo e nella gola.

Mi è stato detto di andare a fare una passeggiata appena sentivo le contrazioni, dormire, cucinare brownies… cucinare brownies? Cominciate le prime contrazioni, era come se un terremoto disturbasse le placche tettoniche interne che, spostandosi, raschiandosi e scuotendosi, crescevano gradualmente per 90 secondi prima di una breve pausa. Si trattava di un rimbombo incandescente e bruciante, a differenza di qualsiasi altro dolore che abbia mai provato. Non è come i crampi mestruali, un taglio o un livido. È dentro di me – ed è strano, misterioso e spaventoso.

Respiravo e mi lamentavo nella sala d’attesa, aspettando l’apertura del mio collo dell’utero, del taglio più profondo. Un’ostetrica ha messo le sue dita all’interno della mia vagina per misurare il collo dell’utero, ma era dilatato solamente di due centimetri. Lontano dai dieci centimetri necessari per far uscire la bambina, ci hanno mandati a casa.

Otto ore più tardi, siamo tornati. Sono stata in travaglio per circa 30 ore. Non avrei mai immaginato che potesse durare così tanto. Non ho dormito per due notti e quel sabato mattina avevo appena mangiato. Era lunedì, come facevo a trovare l’energia necessaria per far nascere mia figlia?

Aspettavamo! C’erano altre due donne che dovevano partorire. Ero sorpresa da quanto poco mi importava che gli altri potessero ascoltare le mie urla poco dignitose. Dopo più o meno un’ora, il mio collo dell’utero è stato esaminato di nuovo. 4 centimetri: sufficiente per essere ricoverata. (Mentre la bambina si preparava ad uscire, una parte di me stava morendo. L’ho realizzato solo più tardi).

La sala parto era senza finestre, così ho perso il senso del tempo. Era un ampio spazio con una vasca da bagno, un letto a due piazze e le attrezzature per sedersi, oppure sporgersi. Le contrazioni sono durate alcune ore e io continuavo a stringere il cuscino che ho portato da casa mentre inghiottivo dell’Entonox. Un altro esame, ancora 4 centimetri dopo 33 ore. L’ostetrica si è offerta di rompere le acque così da accelerare le cose e io ero d’accordo. Sono state rotte le acque e le contrazioni si sono intensificate, le vibrazioni del mio corpo erano come 350 maremoti. Mi ero prefissata di non usufruire dell’epidurale, ma ho cambiato idea, lo volevo subito. Mi hanno consigliato di provare prima il parto in acqua, perché dopo l’assunzione dell’antidolorifico, non avrei più potuto utilizzare l’acqua. Finalmente c’ero, il parto era cominciato.

La mia psiche ha cominciato a stimolarmi: una fetta di lava cake, un tuorlo d’uovo, tre conigli dentro delle scarpe di lana, il ballo del tip tap, una rana che gioca con una fisarmonica scricchiolante, un valzer, una lepre che si chiama Mr. Tibbins. Ero in delirio dal dolore.

Ad un certo punto, la bambina stava per uscire, quindi sono stata messa in un’altra posizione. Durante le prossime due ore, sono stata posizionata in diverse maniere per sfruttare la forza di gravità: a quattro zampe, in ginocchio e infine, sdraiata su un fianco con una gamba sulla spalla di un’ostetrica. Ero troppo stanca.

Confidavo nelle ostetriche e in mio marito, ma sicuramente stavo morendo, o almeno, mi stavo spaccando in due. “Tagliatela, tagliatela, tagliatela”. Questo parto è stato un uragano, una mazza chiodata, un mucchio di filo spinato, una lama, un pesce palla gonfio, un albero di Natale.

Il battito cardiaco della bambina era sceso ed era in pericolo. Hanno premuto il pulsante rosso di emergenza sul letto e i medici hanno riempito la stanza in pochi secondi. Un uomo mi ha chiesto il permesso di usare una ventosa per tirarla fuori. Riuscivo a malapena a parlare, così ho annuito. Non volevo nient’altro che abbracciare mia figlia viva e sana. Ho posto le mie ultime forze in una spinta finale. Finalmente è uscita, i suoi occhi scuri erano spaventosamente ampi, le sue mani erano aperte e allargate. Me l’hanno messa sul petto e il mio cuore è esploso.

Mi guardavo attorno, la sala parto somigliava ad una scena del crimine. Rapidamente e vivacemente, il sangue è stato ripulito e mi stavano cucendo in mezzo alla stanza, mentre i miei occhi si poggiavano su mia figlia. Non m’interessava se stavano mettendo i punti in modo sbagliato e avrebbero dovuto rimetterli. La mia bambina era in un angolo e io mi stavo godendo il massimo delle sostanze lecite.

Sono stata messa in guardia sulla depressione post parto che sarebbe potuta arrivare cinque giorni dopo il parto. Credo che la nascita della mia bambina sia stata la cosa più difficile che abbia mai affrontato, quindi non credevo potesse arrivarmi anche la depressione. Le notti erano anarchiche e io avevo i lividi della fatica. Allattavo al seno almeno 18 volte al giorno, un’ora alla volta. “È meraviglioso” mi è stato detto.

“Devi solo nutrirla, nutrirla, nutrirla, nutrirla, nutrirla” mi ha detto l’ostetrica. Non capivo perché la bambina non metteva su peso nonostante le davo da mangiare senza sosta. Ero sconvolta di non essere in grado di nutrire mia figlia abbastanza bene.

Alla fine, una sorta di anziana ostetrica irlandese ha sentito la follia nella mia voce e mi ha dato il permesso di comprare il latte artificiale. Da lì, la bambina ha iniziato a crescere e il suo ittero è retrocesso.

In quelle settimane febbrili, ero spesso sonnambula e andavo nel salotto a cullare un bambino immaginario. “Lei è qui, ho io lei” mi diceva dolcemente mio marito. Anche quando non siamo nella stessa stanza, penso che lei sia con me. Ho notato che la bambina ha un odore tutto suo e sono rimasta sorpresa che non sia uguale al mio. Quando chiudo gli occhi, la vedo. Ho allucinazioni, vedo il suo viso tra le persiane di legno, nel volto della Regina, in quello di Dominic Cooper, di Vince Vaughn, di Yoda.

Sento una fusione tra me e lei. Le ore si fondono, le pareti e le giornate diventano porose e intercambiabili. Amo la mia bambina ma amo anche il mio lavoro. Sono irritata dalla tensione. Sono sorpresa dai messaggi subliminali e contraddittori della maternità e mi sembra di aver interiorizzato che: a) la maternità moderna strappa una donna dal “mondo reale”, b) le madri che tornano nel “mondo reale” e tornano a lavorare sono egoiste perché danneggiano il bambino. A me non piacciono queste due teorie, le respingo. Ma non capisco da dove mi siano venute.

Sto cambiando anche fisicamente. Lo vedo quando mi guardo allo specchio. Sono un’altra persona. Il mio stomaco è un bozzolo vuoto, pastoso e spesso. I miei seni sono deformi scarabocchiati da smagliature orripilanti. Ho fatto un taglio corto di capelli per risparmiare sui tempi di lavaggio. Non ho tempo di fare il bagno tutti i giorni, quindi il mio corpo odora in maniera diversa rispetto al normale ed è “imburrato” con uno strato di grasso su cosce e fianchi. Decido di fare le scale anziché comprare ciambelle.

Dopo tre mesi, ho imparato a sopportare che la bambina è vulnerabile e non c’è nulla di certo. Sto imparando a godere l’enormità spaventosa di questo nuovo amore. L’autunno si sta trasformando in inverno e il mondo si restringe. Sicuramente, ci saranno ulteriori modifiche ed evoluzioni, ma al momento, le acque sono calme. L’abbiamo chiamata Evelyn, significa: “desiderare un bambino.”

La discussione continua nel gruppo privato!
Seguici anche su Google News!