"Sapevo di dover partorire in carcere, non di doverlo fare in catene"
Partorire in prigione, incatenate alla barella con le manette. È qualcosa di inimmaginabile. Ecco perché nessuna dovrebbe subirlo più.
Partorire in prigione, incatenate alla barella con le manette. È qualcosa di inimmaginabile. Ecco perché nessuna dovrebbe subirlo più.
La prigione è un mondo che neppure immaginiamo. Accade con le prigioni italiane – delle quali dovremmo conoscere almeno le leggi che le regolano – e accade ancor più con le prigioni di altri stati, dei quali potremmo ignorare completamente la cultura e la filosofia alla base delle norme. Certo, Orange Is the New Black ci ha spalancato di fronte un mondo: ci ha mostrato che le detenute sono alle prese con le nostre medesime questioni femminili, dalla sindrome premestruale al parto. Quest’ultimo dovrebbe essere uno tra i momenti più felici nella vita di una persona. Doloroso, sicuramente, ma felice. Partorire in carcere però è tutta un’altra storia.
E, nello specifico, è la storia raccontata da Melissa Hall, che nel 2013, a 25 anni, si trovava nella prigione della contea di Milwakee ed è entrata in travaglio, come racconta un articolo su Cosmopolitan. Il modo in cui ha partorito ci appare oltre i limiti dei diritti umani. Perché Melissa ha dovuto partorire in catene. Sì, ok, si trovava in carcere perché le era stato riconosciuto un crimine – non entriamo nel merito se fosse davvero innocente o meno – e stava scontando la sua pena, ed è chiaro che una persona in stato di detenzione debba essere controllata. Ma ci ritroviamo a chiederci seriamente come possa una donna in travaglio o una puerpera da poche ore sfuggire alla propria condanna. Era proprio necessario incatenare questa donna – come molte altre – alla barella?
Melissa ha spinto senza tenere per mano il suo compagno. Ha avuto il braccio e la caviglia destra assicurate alla barella con delle manette che le hanno scavato la carne. Più un’altra catena nel caso avesse dovuto andare in bagno. L’epidurale ha fatto effetto solo su metà del suo corpo. La prima volta che ha allattato, ha dovuto tenere il suo bimbo, Jesus, su un cuscino, perché non si facesse male con il freddo e duro metallo delle catene. Tutto questo orrore non è tra l’altro sempre legale.
Dal 1999 a oggi, 22 stati degli Stati Uniti e il distretto di Columbia hanno promulgato delle leggi che limitano l’uso delle manette o delle catene sulle donne incinte che si trovano in prigione. Si tratta però di leggi statali, non valide sull’intero territorio nazionale e, purtroppo per le donne, anche scarsamente osservate. Tanto che ogni tanto, qualche carcere si ritrova a essere perdente in un’azione legale di queste donne costrette a partorire in catene. A Milwaukee la situazione si è ribaltata rispetto al 2013 e alla terribile esperienza di Melissa. Che ha deciso di dare vita a una class action per tutte le donne che hanno dovuto affrontare quello che ha vissuto lei, in termini di travaglio, parto e post-parto.
Uno dei potenziali limiti della questione è costituito dai numeri: non esistono infatti statistiche relative al numero di donne incinte che hanno partorito in catene nel periodo in cui erano in prigione. In generale, tra le donne in carcere negli Stati Uniti, il 3% è incinta e partorirà in prigione, nel periodo in cui sta scontando la pena, stando ai dati dell’organizzazione no profit Vera Justice. In generale però l’opinione pubblica sembra essere dalla parte delle donne incinte in prigione. Melissa ha raccontato gli eventi confusi che hanno portato alla sua incarcerazione, ai suoi sei mesi in carcere, ma soprattutto quel momento del parto, iniziato alle 3 di notte. Le guardie l’hanno ammanettata e portata in ospedale solo alle 8 del mattino. Dove i medici hanno peraltro chiesto più volte di liberare la paziente.
Non pensavo che mi avrebbero incatenata per andare in ospedale, per avere un bimbo – ha spiegato Melissa – Ci sarebbe stata una testa che avrebbe dovuto uscire dalla mia vagina. Dove avrei potuto andare? […] La mia testa correva tra pensieri negativi di ciò che avrebbe potuto accadere. E se, e se, e se, e se? Se qualcosa andasse storto con il mio bimbo e io sono in catene?
Oggi Melissa ha 29 anni, è una donna affascinante, ha quattro figli: Saida di 11 anni, Aliana di 6, Miliana di 2 e naturalmente Jesus di 4 anni. Tutto è cambiato, Melissa è una donna libera che desidera che qualcosa del genere non capiti più a nessun altra donna. E per questo racconta la sua storia, una storia che non racconterà mai a suo figlio Jesus.
Vorrei vivere in un incubo di David Lynch. #betweentwoworlds
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