"La mia malattia mentale è reale come una carie e dolorosa come una colica"

Cosa sarebbe successo se fosse stato il mio primo episodio di malattia mentale? Cosa sarebbe successo se, invece di cercare ostinatamente aiuto, fossi ancora la persona ignorante per cui la malattia mentale è un atteggiamento che si sceglie, non livelli di serotonina, noradrenalina, acetilcolina, dopamina, tiroide che non funziona e cose che non capisco ma che sono reali, come la carie sui denti o la colica renale che ti piega in due dal dolore?

Ho pensato molto prima di scrivere queste parole. Ho letto tutto quello che ho trovato sull’oscena vicenda di Alice Sebesta, la mamma detenuta nel carcere di Rebibbia a Roma, che ha gettato i figli giù dalla tromba delle scale, uccidendoli entrambi.

Ho letto i commenti delle persone sotto gli articoli. Ho letto rabbia, sconforto, orrore, insulti. Ho letto condanne a morte e assoluzioni, quest’ultime non per Alice, per noi stessi. Ho letto il distacco giudicante di chi pensa che Alice sia là, noi qui, su due piani diversi: le nostre vite e la sua scorrono su rette parallele che non si incontreranno mai. Alice la tossica, Alice la delinquente, Alice la spacciatrice, Alice l’assassina. Dall’altra parte, noi.

Perché Alice probabilmente è davvero la delinquente, la spacciatrice e altre cose che noi non siamo. Ma Alice l’assassina… Che lo sia, ora, non c’è dubbio. La più reietta delle assassine, quella dei propri figli. Ma le rette parallele, nella geometria non euclidea, non si incontrano mai “se non all’infinito”.

E forse Alice l’assassina è quel punto all’infinito, il crash tra la nostra retta e la sua.

Ho pensato molto prima di scrivere queste parole, perché richiedono un coraggio che finora mi è mancato: raccontano il pezzo rotto di un meccanismo funzionante e che è rassicurante lasciare che gli altri pensino sia sempre stato così. Ma quale sia l’ingranaggio spezzato non è più così chiaro.

Dissi che c’era qualcosa che non andava all’ostetrica e alla ginecologa ancora prima di essere dimessa dall’ospedale: a me quel neonato di pochi giorni tanto voluto sembrava un estraneo, un intruso, non ero felice, perché non ero felice?
Dissi che stava accadendo di nuovo. 15 anni con episodi di ansia, attacchi di panico, una depressione minore, psicologi, psichiatri, terapie alternative e farmacologiche ti danno una competenza non riconosciuta in materia.

Mi dissero che succede, è normale: mi misero in mano un depliant con alcuni numeri utili per mamme dopo il parto, segnalandomi anche un consultorio dedicato proprio ad accogliere le richieste di aiuto.

Lo chiamai pochi giorni dopo, fui convocata per la settimana successiva: una psicologa mi scruta per mezz’ora, mi parla, sorride, dice che è normale, è stato il parto complesso e violento che continua ad avere ripercussioni pesanti, sono gli ormoni. Le dico di no, c’è dell’altro: non riesco a stare da sola con il mio bambino, sono terrorizzata, ho paura di fargli male, non dormo più di 3-4 ore al giorno da quello in cui lui è nato, anche se lui è tranquillo e si fa lunghe nanne. Sono esausta, ma penso che se mi addormentassi potrei perdere il controllo, ho paura di trasformarmi in un mostro. Ho bisogno di aiuto.

Lei minimizza. Prescrive melatonina, valeriana e tanti pensieri positivi. Io richiamo pochi giorni dopo: non ce la faccio, ho bisogno di incontrare uno psichiatra, valutare seriamente il da farsi. Mi dicono che l’ambulatorio che si occupa di depressione post-partum non ha psichiatri, ma psicologi. Posso fare un’altra chiacchierata con la psicologa.
Dico che una persona che sta annegando non riesce a fare una chiacchierata. Prima ha bisogno almeno di un salvagente. Mi dicono che non possono nulla. Non un’indicazione, un numero di telefono, un nome di chi possa aiutarmi.

Sento altri consultori, altre associazioni: è un rimbalzarsi di competenze territoriali e operative.

Chiedo al medico che sta seguendo mio figlio, che nel frattempo è in osservazione per alcuni problemi di salute, il contatto di uno psichiatra valido. Mi dà un nome. Pago 250 euro a ogni incontro. Non posso permettermelo, ma lo faccio, perché non voglio andare a tentativi per CPS pubblici (nessun supporto post-partum me li ha indicati: se già non sapessi della loro esistenza, non conoscerei neppure questa opzione).

L’ho fatto in passato: che ti vada bene o no è questione di fortuna, un’eccezione spesso, non la norma. E stavolta la posta in gioco è più preziosa di me stessa.
Solo quando non ingoio più acqua e il salvagente mi fa sentire al sicuro, mi rivolgerò al CPS della mia zona e continuerò il mio percorso.

Intanto il mio bambino è finalmente a colori. Ha manine appiccicose, un odore che riconosco perché è il mio, dormo con lui e quando lui è nel lettino, passiamo tanto tempo da soli e lui è al sicuro, perché con lui c’è la sua mamma. Ho braccia forti per consolarlo, dolci per coccolarlo e facce buffe che lo fanno ridere.

Cosa sarebbe successo se fosse stato il mio primo episodio di malattia mentale?
Quando tu stessa devi ancora comprendere cosa ti sta succedendo, elaborare il rifiuto del fatto che stia succedendo a te e delle cure, perché tu non sei matta, tu puoi farcela da sola. “Perché la depressione non esiste, è nella mia testa e io posso scacciarla da lì solo pensando che ho una bella vita, una bella famiglia che mi ama, sono fortunata”… E invece no.

Cosa sarebbe successo se, invece di cercare ostinatamente aiuto, fossi ancora la persona ignorante per cui la malattia mentale è un atteggiamento che si sceglie, non livelli di serotonina, noradrenalina, acetilcolina, dopamina, tiroide che non funziona e cose che non capisco ma che sono reali, come la carie sui denti o la colica renale che ti piega in due dal dolore?

Cosa succede se a chiedere aiuto non è un donna incensurata, magari un po’ pittima, eccentrica o melodrammatica, ma una ragazza “poco raccomandabile”, forse marchiata dai segni delle trascuratezze di certe vite al limite e da una fedina penale non intonsa? Una che “non merita” per qualcuno di essere aiutata. Una che “se l’è cercata”. Una che “vale un po’ di meno” di noi che stiamo sull’altra retta parallela.

Che fine fa il suo grido di aiuto? Chi ne sa cogliere i segnali, se lei non ha la consapevolezza necessaria per gridarlo o per rendersi conto di averne bisogno?
Quali mani che non si sono tese, oltre le sue, hanno ucciso i suoi due bambini?

Qual è l’ingranaggio davvero rotto in questa storia e in tutte quelle storie di madri che cessano di essere umane?

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