Se i bimbi disabili non meritano attenzione e i pannolini li cambiano le femmine

La pubblicità per bambini dice che non esistono bambini disabili, malati; che quelli di colore evidentemente non giocano; che le bambine devono essere perfettamente truccate e mammine devote, felici di cambiare pannolini a neonati con il culetto irritato; e che i corpi grassi non meritano attenzione.

1. Le bambine devono essere perfettamente truccate.
2. Cambiare cacche e pipì ai bambolotti, arrotolati in pannolini sporchi oltre ogni fantasia, devono essere rigorosamente le bambine.
3. I bambini neri o di etnia asiatica non esistono o non giocano
4. I bambini disabili e quelli malati neppure.
5. Nessun bambino è grasso

Questo è, in sintesi, quello che si impara guardando le pubblicità dei bambini, tra una puntata e l’altra di Peppa Pig, Super Pigiami, Trolls e vari incubi che ogni genitore conosce a memoria.

Ci sono, non si può negare, alcuni tentativi da parte delle aziende che producono giocattoli di superare gli stereotipi di genere. Ma hanno la parvenza di un incespicare goffo e artefatto, che non nasconde il fatto che si tratti più di un’imposizione dei tempi che di un valore intrinseco del brand di turno e di una nuova visione finalmente illuminata, oltreché doverosa dal punto di vista etico.

C’è qualche bambina qua e là che gioca con un mostriciattolo, con le macchinine o le costruzioni insieme a bambini maschi. C’è qualche bambina non truccata a fronte di molte che manco le modelle sul catalogo dei nuovi trend in fatto di trucco sposa o make up stagionale.
C’è persino, molto raramente, qualche bambino leggermente colorato, che evoca un’affascinante mescolanza di etnie.
Ma il mondo là fuori è davvero questo? No.

Se il mondo fosse come quello rappresentato dalla pubblicità i nostri figli, italiani da generazioni, andrebbero in asili e scuole dove non esistono bambini dalla pelle nera, ragazze che indossano il velo, ragazzini Sikh con la cipollina in testa a raccoglierne i capelli.

Non avremmo o non ci sarebbero nelle classi dei nostri figli, bambini disabili o malati e neppure bimbi grassi, obesi o, comunque, lontani da stereotipi di bellezza socialmente accettabili.

Affinché la realtà sia iper rappresentata, in dotazione a un bambolotto ci sono pannolini con applicazioni in velcro marroni o gialla, a simulare la cacca e la pipì, e un culetto che si arrossa finché due bambine femmine, ovviamente entusiaste della mansione, non se ne prendono cura e curano l’irritazione.
Affinché la realtà sia non iper, ma rappresentata in modo rispondente al vero, però, non c’è un bambino maschio che saltella felice di cambiare la cacca del suo bambolotto, né bimbe disabili o di un colore di pelle che sia qualcosa di più di una concessione al vagamente esotico.

Qualcuno, molti, sbufferanno. Alzeranno gli occhi al cielo e penseranno che queste sono le ragioni di una pseudo intellettuale, buonista o politically correct.

In realtà la visione buonista, falsata e pericolosamente settaria è quella che oggi la pubblicità dei bambini continua a rappresentare: perché è una realtà che non esiste.

Perché rappresentare qualcosa o qualcuno significa riconoscerlo, dargli dignità. E la pubblicità, oggi, dice, tacendolo, a mio figlio maschio che il suo eventuale desiderio di cambiare un pannolino a un bambolotto è un’anomalia, per la quale non può trovare un modello in cui riconoscersi.
Gli dice che i bambini disabili, di etnie diverse, con caratteristiche fisiche fuori stereotipo sono anch’essi un’anomalia di cui non è necessario tenere troppo contro.

Dice alla sua amichetta dell’asilo che le bambine sono entusiaste di fare le mammine e che non esserlo è strano come non voler indossare un gloss rosato o un ombretto viola o avere capelli corti e non chiome fluenti.

Dice al bambino grasso che abita un corpo non degno di attenzione.

Se esiste – ed esiste – una responsabilità da parte degli uomini e delle donne di advertising, soprattutto quando si rivolgono a un target delicato e plagiabile come quello dei bambini, è una responsabilità ad oggi tradita o colpevolmente ignorata.

Ci sono, ovviamente, delle eccezioni, ma hanno appunto il carattere dell’anomalia che invece non sono e che ti fa tirare un sospiro di sollievo e pensare che ci sia luce in fondo al tunnel, con la consapevolezza però che c’è ancora tanto da fare e che, anche la generazione dei bambini in età prescolare, sta crescendo alla logica degli stereotipi di genere, bellezza, etnia e salute che per loro, pensavi, sarebbe stata solo un brutto racconto sentito dai genitori e tanto lontano dalla realtà in cui vivono, quanto ora lo è la pubblicità che guardano.

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