Negli ultimi anni la medicina ha fatto passi in avanti che nessuno avrebbe mai potuto nemmeno immaginare fino a poco tempo fa. Nel 2017 è nato il primo bambino da una donna che aveva ricevuto il trapianto dell’utero. Lei, che era nata senza, ha potuto così dare alla luce un figlio tutto suo. La storia ha ispirato la 49enne Silvia Park, americana e madre di due figli, che ha deciso di donare anche il suo utero. Ha raccontato la sua sofferta (ma emozionata) decisione e il suo percorso a Cosmopolitan US.

La donna ha spiegato come dietro la sua scelta ci fosse in realtà il figlio transessuale, grazie al quale ha potuto entrare in contatto con altri genitori di bambini e adolescenti LGBTQ. Dopo aver letto la storia di quel trapianto, ha pensato di poter fare qualcosa di molto concreto per aiutare chi non può concepire.

Nel dicembre 2017 ho letto un articolo su una donna che aveva ricevuto un trapianto d’utero da una donatrice vivente. Faceva parte di una ricerca ancora in corso del Baylor University Medical Center che punta a trovare nuovi trattamenti per la fertilità delle donne cisgender [N.d.R., chi è a suo agio con la propria sessualità], ovvero non transgender, senza utero o con utero non funzionante. Nella mia testa ho cominciato a pensare a questa donna, che ha potuto rimanere incinta e dare alla luce un bambino senza complicazioni. Un giorno, ho pensato, questa procedura potrebbe aiutare anche le donne transgender (in transizione da uomo a donna) a dare alla luce i loro figli.

L’idea di poter dare una mano alla ricerca era stimolante, nonostante gli inevitabili dubbi etici. Diversamente da altri tipi di trapianti, in questo caso non si punta a salvare la vita di qualcuno, ma a migliorarla. In più, esistono rischi sia per il donatore che per il ricevente, dato che potrebbero esserci numerose complicazioni, tra cui non solo un rigetto, ma anche il diabete. Mettendo tutto su un’ipotetica bilancia, tuttavia, Silvia Park ha deciso che i vantaggi fossero molto più importanti.

Essendo madre di due figli biologici e di un figliastro, ho sempre creduto che chiunque debba avere il diritto di decidere di dare alla luce un bambino, al di là del suo sesso. E volevo disperatamente dare il mio contributo alla causa. […] Nonostante non sia un modo per aiutare direttamente mio figlio, che in qualità di transgender uomo ha già un utero, anche se probabilmente non avrà comunque dei figli suoi, era qualcosa che mi sentivo di fare adesso per aiutare la comunità transgender del futuro.

Nonostante non avesse mai donato nemmeno il sangue, la donna ha deciso di chiamare il Baylor e scoprire qualcosa di più sulla procedura, simile all’isterectomia. Ha saputo così che l’intervento avrebbe interrotto il suo ciclo mestruale, consentendo però alle ovaie di funzionare normalmente, ma senza la possibilità di restare di nuovo incinta. A 49 anni, comunque, lei non sentiva più il desiderio di diventare ancora mamma. Nonostante un po’ di timori, Silvia ha deciso di farlo, ottenendo il supporto di famiglia e amici.

L’operazione è durata otto ore, più del previsto. Le infermiere mi hanno spiegato che con i donatori viventi, e soprattutto nel caso di procedure nuove, i chirurghi prendono molte più precauzioni per essere sicuri di non nuocere al paziente o all’organo che stanno rimuovendo.

Tutto è andato benissimo e l’utero è stato trapiantato con successo su una donna. Per motivi di privacy, Silvia non ha ricevuto alcuna informazione sulla persona a cui ha così generosamente donato una parte del suo corpo. Ma va bene così.

Pensare al mio utero dentro un’altra donna, capace di generare una nuova vita, non mi sembra una cosa strana. Come parte del corpo a me non serviva più. Ora qualcuno lo sta usando in modo migliore.

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