L’aborto continua a rimanere un tema caldissimo che divide l’opinione pubblica e investe il campo della morale e della tutela dei diritti civili. Quello che a molte donne oggi appare come un diritto acquisito che qualcuno, di tanto in tanto, cerca di rimettere in discussione (non da ultimo il caso di Verona), quella dell’interruzione di gravidanza è in realtà una prerogativa a cui si è giunti solo dopo battaglie e percorsi travagliati, e che comunque continua a essere interdetta in molti paesi del mondo.
Se in Italia si è arrivati a garantire il diritto con la legge 194 del 1974, negli Stati Uniti è stata proprio la lotta personale di una donna a portare alla sua legalizzazione, appena un anno prima.
Norma McCorvey, nota con lo pseudonimo legale di Jane Roe, mancata nel 2017, è stata infatti al centro del processo che ha portato alla legalizzazione dell’aborto in Texas. Era il 1973.
La sua esistenza è stata giudicata controversa da molti: ha avuto dei figli, tutti dati in adozione; è stata protagonista, per l’appunto, della causa “Roe vs Wade”; e infine, molti anni dopo, ha cambiato radicalmente idea, entrando a far parte del movimento pro-life. Possiamo ben capire perché la sua figura faccia ancora parlare dopo tutti questi anni, specie a poco tempo dalla sua morte.
Come detto, quello dell’aborto è un tema estremamente complesso e delicato, e infatti ciò che vogliamo fare non è dare un giudizio etico, ma raccontare delle storie – tutte accadute negli Stati Uniti prima del ’73 – che spiegano quanto sia pericolosa l’interruzione di gravidanza praticata in maniera illegale. Si parla di donne molto giovani, spesso rimaste incinta in seguito a uno stupro. Di nascosto dai genitori si sono rivolte ad abortisti illegali, oppure hanno fatto da sé. Molte di loro non sono sopravvissute.
Sapete, ad esempio, cos’è il cosiddetto “hanger abortion”? “Hanger” sta per le grucce appendiabiti. Molti aborti casalinghi si praticavano infatti proprio con l’aiuto di queste grucce, un intervento atroce e pericolosissimo effettuato ovviamente senza anestesia. Molte donne sono morte dopo aver contratto un’infezione tremenda, la peritonite.
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Abbiamo raccolto otto storie di aborti clandestini in gallery; le prime tre sono raccontate in prima persona da donne che hanno scelto di abortire. Sono state raccolte dal magazine The Scene con l’aiuto della campagna “1 on 3” (un numero che rivela un dato: una donna su tre ha abortito nel corso della sua vita). La quarta è la testimonianza di una dottoressa che ha visto più di una ragazza morire in seguito all’intervento. Le ultime sono storie raccontate da amiche, figlie, nipoti: custodi di un ricordo doloroso, difficile da esprimere a parole, spesso taciuto per molti anni e infine rivelato soltanto a loro. Sono tutte lettrici di MS Magazine, che ha raccolto e condiviso le loro parole per la campagna #WeWontGoBack (Non torneremo indietro).
Di seguito, invece, abbiamo voluto condividere il video dell’intervista a Jane, Connie e Robyn, oltre che della dottoressa Samuels.
Jane, stuprata al college
Mi sono svegliata con la sensazione di una mano maschile premuta sulla gola. Stava dicendo ‘Se fai un solo rumore ti ammazzo’.
Jane è stata stuprata all’ultimo anno del college. Ha praticato l’interruzione di gravidanza nel 1968. All’ospedale è arrivata al punto di minacciare il suicidio se non le avessero permesso di abortire, ma non ha comunque ottenuto di poter fare l’intervento: all’epoca, nel suo Stato, non era ancora legale.
Così si è cercata un abortista. Ha guidato fino in Louisiana, accompagnata da un’amica. Non è andata come sperava. Il dolore, invece di svanire dopo qualche giorno, era sempre più forte. Alla fine è stata costretta ad andare in ospedale, dove hanno scoperto una cosa agghiacciante. “Il medico aveva lasciato dentro di me una pezza di stoffa, che andò in putrefazione. Ciò causò un’infezione in tutta quell’area del mio corpo. Si chiama peritonite. Sono rimasta in ospedale per due settimane, il medico disse che mi restavano sette ore di vita”.
Andò meglio, per fortuna: Jane è sopravvissuta. Il medico che l’aveva curata fu costretto a dirle che, per legge, avrebbe dovuto chiamare la polizia. Ma Jane non ha mai fatto il nome del suo abortista. “Da un lato volevo farlo, quell’uomo mi aveva quasi ucciso. Ma dall’altro lato… Io credevo davvero nell’aborto. E non volevo veder arrestato questo medico, perché aveva cercato di farmi un favore”.
La peritonite ha tolto a Jane la possibilità di avere altri figli. Oggi è una psicoterapeuta e ha una figlia adottiva. Questa è la sua testimonianza: “Essere violentata è stato brutto, ma abortire è stato vergognoso. Se l’aborto non continuerà ad essere legale, le donne continueranno ad abortire in modo illegale e continueranno a morire. Io stessa sono quasi morta”.
Connie, molestata dal suo abortista
Connie ha abortito nel 1953. Aveva solo 16 anni. E anche lei aveva subito uno stupro. Oggi è un’artista, scrive, ha figli e nipoti. Racconta la sua esperienza con parole molto forti.
L’abortista mi disse che non mi avrebbe dato nessun anestetico. Mi disse, ‘se urlerai ti sentiranno’. Ero nella posizione che ogni donna conosce, stesa su un tavolo con le gambe aperte. E quest’uomo era lì a frugare dentro di me come se fossi qualcosa da mangiare. Il dolore era così esagerato, così oltraggioso, che ricordo di aver abbandonato il mio corpo. Non ho urlato, ma ricordo questa sensazione di trovarmi sopra al mio corpo e di guardare giù.
Dopo l’intervento il medico le fece un lungo discorso. “Mi disse che nessun altro ragazzo avrebbe mai dovuto toccarmi, che dovevo mantenermi pura, che era molto importante. Disse questo, e poi mi molestò anche lui. Stavo ancora sanguinando. Non riuscivo a urlare, non riuscivo a chiedere aiuto. Non riuscivo a fare niente“. Nessun rispetto per lei, per la sua persona e per il suo corpo, perché negli anni ’50 una donna, dopo “essersi fatta stuprare” e aver abortito, praticamente non aveva dignità né diritti. Era solo un oggetto con cui era ormai legittimo divertirsi.
Oggi Connie lotta ancora per ribadire l’importanza della legalità dell’aborto. “Se non difendiamo con forza la legalità dell’aborto, sarà di nuovo così. Non possiamo perdere questo diritto”.
Robyn, il padre medico la aiutò ad abortire
Robyn ha abortito nel 1971. Aveva 19 anni e gravi problemi di alcolismo. “Non ero neanche responsabile di me stessa – ha raccontato – non avrei mai potuto essere responsabile di un bambino”. Tutt’oggi Robyn si considera una privilegiata, perché ha ricevuto un grande aiuto da una persona speciale (con cui tra l’altro, all’epoca, aveva anche diversi problemi): suo padre, un medico. “Fu lui a organizzare tutto dopo che ebbi preso la mia decisione. Mi accompagnò in macchina. E anche se eravamo lontani da casa, era terrorizzato che qualcuno potesse riconoscerlo come medico e accusarlo. Era spaventato quanto me”.
Robyn ha anche puntualizzato un aspetto importantissimo dell’aborto: la questione “altri figli”.
Rimpiango di non aver avuto figli, ma non rimpiango di aver abortito in quell’occasione. Perché penso che una cosa non abbia nulla a che vedere con l’altra.
Molti, infatti, pensano che chi abortisce una volta non voglia avere figli in assoluto. E invece quasi mai è così. “Sono stata così fortunata – racconta Robyn – a poter prendere la mia decisione in autonomia e ad essere stata aiutata. Oggi è cruciale che le persone capiscano quant’è importante che le donne abbiano una scelta“.
L'esperienza della dottoressa Samuel
Nel 1965 la dottoressa Samuels stava facendo un tirocinio medico in un ospedale di Brooklyn. Ha visto molte donne morire in seguito a un aborto. Il primo è stato un trauma impossibile da dimenticare.
Non potevo credere a ciò che ho visto… sono tornata a casa e ho pianto. Qualcuno aveva eseguito su di lei un ‘hanger abortion’. Le avevano perforato l’utero. Quando è venuta in ospedale era in shock settico, provocato da infezione. La donna è morta.
La dottoressa Samuels, che oggi è una pediatra, ha visto altre due donne morire. Una, in particolare, era molto giovane ed era già madre di due figli piccoli. La sua famiglia non poteva permettersi di mantenerne un terzo, così la donna scelse di abortire. Nel giro di 48 ore morì di tetano.
Dopo aver visto queste storie da vicino, la dottoressa non è mai riuscita a dimenticare. Oggi si batte con forza per la legalità dell’aborto, al di là dell’aspetto morale, semplicemente da medico quale è.
Ho visto morire tre donne per un aborto. Tre donne, in un breve periodo in un piccolo ospedale di Brooklyn. Mi fece pensare che deve esserci molto di più, rispetto a ciò che sappiamo. Tutto questo è successo cinquant’anni fa, ma sembra ieri. Riesco ancora a vedere le loro facce. Gli aborti continueranno ad esserci, che sia legale o no. Ci saranno sempre. Come è sempre stato.
Evelyn, perse l'amica violentata dall'insegnante
Evelyn ha raccontato a MS Magazine l’esperienza di una sua cara amica, rimasta incinta in prima liceo dell’insegnante di educazione fisica. Lui la minacciò, le disse che l’avrebbe uccisa se avesse raccontato come (e di chi) era rimasta incinta. La ragazza aveva appena perso sua madre: si era suicidata dopo aver divorziato dal marito.
Racimolò un po’ soldi chiedendo prestiti a chiunque – racconta Evelyn – e andò dall’abortista locale. Morì nel bagno delle ragazze una settimana dopo. Era un’artista piena di talento, componeva musica. La conoscevo fin dalle elementari e anche oggi, a 62 anni, riesco a sentire la sua risata. Non l’hanno seppellita nel suo cimitero, come pure sua mamma, morta suicida, perché erano cattoliche di famiglia.
Patricia racconta il segreto della nonna
Patricia ha condiviso la storia dolorosissima di sua nonna. Nel 1932, all’apice della Grande Depressione, aveva un figlio piccolo ed era incinta di cinque mesi di un secondo bambino.
“Era sempre stata una devota cattolica. Mio nonno, un giorno, semplicemente tornò a casa – nel loro minuscolo bilocale – e la informò che l’avrebbe lasciata per un’altra donna”. Senza lavoro, con la prospettiva di trovarsi anche senza una casa, la nonna di Patricia prese una decisione. “Era sola, disperata e terrorizzata. Una settimana dopo l’abbandono di mio nonno, trovò un abortista illegale che eseguì l’intervento su di lei”.
La donna sanguinò fin quasi alla morte, poi tornò a casa e diede alla luce quello che – ufficialmente – fu sempre considerato un bambino nato morto. Contrasse la peritonite ed entrò in coma per una settimana. “Quando tornò cosciente e realizzò ciò che aveva fatto, pianse senza sosta per due mesi. Sono l’unica persona al mondo a cui l’abbia mai confessato. Mi ha detto che il dolore e la disperazione erano così forti che era terrorizzata all’idea di morire: aveva paura di dover affrontare il bambino che aveva abortito. Ha vissuto fino a 102 anni e non si è mai, mai perdonata”.
Carol ricorda l'aborto della mamma
Carol ha portato la sua testimonianza con poche parole incisive. “Il mio racconto è molto breve. Parla di mia madre, nata nel 1924, morta nel 1972. L’hanno trovata in una pozza di sangue sul pavimento di piastrelle bianche del bagno. È stata sua madre a trovarla. Non è morta. Più tardi ebbe mia sorella e me. Dopo il suo suicidio, all’età di 46 anni, mia nonna mi ha raccontato tutto”. Sua madre non gliel’aveva mai detto.
Gli aborti nella famiglia di Jayne
Il racconto di Jayne passa attraverso la testimonianza di sua madre, che ha assistito a più di un aborto illegale all’interno della sua stessa famiglia. “Mia madre mi ha parlato di zie, e altri membri molto amati della famiglia, che non potevano affrontare un’altra gravidanza (o non potevano permettersi un altro figlio)”. Ecco ciò che passava il convento all’epoca: aborti “da tavolo della cucina”, casalinghi, eseguiti in segreto con una gruccia appendiabiti. Era una pratica pericolosissima e dolorosa all’inverosimile.
L’aborto funzionava, ma queste donne sono morte in modo atroce per via di infezioni come la peritonite. “Erano disperate, credevano di non avere scelta. Mia madre si è sempre sentita come perseguitata dalle loro storie, dal loro sentirsi così in trappola. È stata una tale perdita, per lei e la sua famiglia, dire addio a queste donne forti e piene di vita. Erano gli anni ’30 e ’40“.
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