Chiara DeMarchi non è “solo” una eccezionale fotografa, di cui ci siamo già occupati raccontando il suo lavoro attraverso le immagini della sue serie, Invisible Body Disabilities.

Lei, padovana da sempre appassionata di fotografia e attenta ai diritti delle donne – si è occupata di allattamento al seno così come di body positivity, ribadendo il messaggio che ognuna di noi sia libera e abbia il diritto di vivere la propria vita al meglio – è anche mamma di due bambini, con una storia particolare alle spalle.

Una di quelle che non fa mai piacere raccontare, perché a farlo ci si sente sempre un po’ sole, quasi “strane”, perché si ha la sensazione che certe cose siano accadute solo a noi e che la gente, se si parla di certi argomenti, ti guardi stranita come fossi un’aliena.

Invece quello che ha subito Chiara non solo è comune più di quanto si possa pensare, ma anche molto grave e importante da denunciare, per dare un quadro reale del problema e invitare altre a farlo.

Perché lei, dietro i suoi scatti meravigliosi, il desiderio di raccontare le storie degli altri e quella discrezione che la porta a mettersi sempre un po’ in disparte, nascosta dal suo obiettivo, ha una storia dolorosa di violenza ostetrica.

Quella stessa di cui è vittima una donna su cinque, nel momento del parto.

Se ne parla poco, spesso viene persino normalizzata, proprio perché chi la subisce o non se ne rende conto, o ha troppo imbarazzo per parlarne. “Ma figurati, quello è un dottore, sa quello che fa!”, si pensa e dice spesso. E invece no, a volte le partorienti subiscono vere e proprie violenze, fisiche e psicologiche, in uno dei momenti più importanti della loro vita.

Per questo abbiamo deciso di essere noi a parlare di violenza ostetrica, senza vergogna, senza reticenze, e lo abbiamo fatto proprio con e grazie a Chiara, che ha accettato di mettersi – per una volta- in primo piano.

Mi chiamo Chiara e sono affetta dal 2009 da rettocolite ulcerosa, una malattia infiammatoria cronica intestinale. Nel 2014 é nato il mio primogenito, Samuele. Per tutta la gravidanza ho assunto un farmaco immunosoppressore (interrotto all’ottavo mese) per tenere a bada la mia malattia.
Al settimo mese, ho avuto una minaccia di parto prematuro con contrazioni preparatorie che hanno appianato il collo dell’utero. La struttura nella quale ero seguita non prevede il reparto di neonatologia, quindi sono stata indirizzata verso un altro ospedale (dove sono stata anche ricoverata per qualche giorno). Ho assunto progesterone per via vaginale rimanendo a riposo assoluto fino al giorno del parto; mi muovevo solo per gli svariati monitoraggi e visite. Non avendo avuto nessun ginecologo o ostetrica di riferimento, cominciavo ad essere sempre più ansiosa.

Al penultimo monitoraggio (ero a 39+6), durante la mattina dell’11 febbraio, feci la visita ginecologica: estraendo il guanto mi dissero che cominciavo a ‘gocciolare’. Nell’eseguire l’ecografia e misurando la testa, l’ostetrica mi disse che il bambino aveva proprio un bel capoccione, ma che sarei stata comunque in grado di partorire. (Alla faccia del tatto!)

Oltre alla retticolite ulcerosa, per tutta la gravidanza Chiara ha lottato anche contro il papilloma virus, contro moltissimi condilomi, favoriti dal suo essere immunodepressa, non scomparsi nemmeno dopo venti cicli di crioterapia. Al settimo mese di gravidanza ha una diatermocoagulazione con anestesia locale, “anche se rimase il problema della leucorrea – spiega – Infatti, al ricovero per minaccia di parto prematuro, credevo di aver rotto il sacco, invece era copiosa leucorrea“.

Arriva il momento del parto:

L’ostetrica in quel momento mi disse che avrei partorito in quel preciso giorno, perché ero già dilatata di 2 centimetri e mi ha intimato di mettere un assorbente, in quanto da lì a poco avrei avuto una cascata. Prima di uscire sentii dire alle colleghe di preparare il lettino e di attaccarmi l’ossitocina. In poche parole mi stavano inducendo il parto pur non avendo nessun tipo di problema, nemmeno del bambino.

C’era davvero bisogno di indurlo? Perché?

Io, felicissima di conoscere il mio miracolo e ignara di cosa mi si sarebbe prospettato, scesi con il mio bagaglio e andai in sala travaglio, dove era già presente una partoriente in travaglio. In men che non si dica sono arrivati con l’ossitocina. Ora, non ricordando se prima o dopo, non vedendo liquido nell’assorbente, mi portarono in un’altra sala e mi misero in posizione litotomica per rompermi il sacco. Questa procedura la ripeterono due volte, perché il sacco si richiuse, ma soprattutto perché io non avevo ancora contrazioni“.

Ritornando in stanza travaglio sentii dire: ‘Questa non ha contrazioni, mettete l’ossitocina al massimo! Morii di dolore. Un dolore accelerato che non mi faceva quasi più respirare. A quel punto feci per gettarmi in basso e stare a carponi, e vedendo la scena si spaventarono, mandando subito qualcuno per mettermi un materassino.

Mi intimarono di non comportarmi assolutamente in quel modo, che potevo farmi male. Io stavo morendo di dolore e avevo bisogno di sfogarlo in quella posizione. Ho supplicato per l’epidurale, ma continuavano a dirmi che l’anestesista era nell’altra stanza con un’altra partoriente e che sarebbe arrivato a momenti.

Dopo un’ora l’anestesista arriva, le viene fatta l’epidurale tra vari rimproveri (“Non muoverti, stai ferma“), ma il dolore, per fortuna, passa, anche se, con il marito impossibilitato a entrare – “Chiedevo perché non potesse entrare e la risposta era: ‘perché c’é un’altra partoriente in sala travaglio'”- Chiara viene completamente abbandonata a se stessa dalle ostetriche. Le viene negato di mangiare e di bere.

Ricordo che dalla fame e dal freddo cominciai ad avere male alla milza (per via della malattia infiammatoria cronica intestinale sono molto delicata). Avevo necessità di coprirmi (avevo solo la camicia da parto e sentivo un terribile freddo) e sapevo che sarei stata male se continuavo a restare al freddo e senza cibo. Avendoci capito poco e nulla, mi attaccarono un farmaco per il mal di stomaco, convinti che io avessi nausea. Ovviamente stavo peggio di prima.

Verso le 18 cominciai a sentire l’impellenza di spingere e avevo accanto due ostetriche. Passai due ore e mezza a spingere. Nel mentre ricordo un’ostetrica dire: ‘non si respira, apri la finestra che questa ha fatto la cacca!’, tutto alternato da un ‘non così!’, ‘spingi ancora di più perché così non esce!!!. Il mio umore era sotto alle scarpe, anche se in quel momento non vedevo l’ora che fosse finita. Continuavano a farmi stare stesa e il mio bambino ad ogni spinta tornava su. Non ce la facevo più, ero distrutta. Ho imprecato e urlato che non ce la facevo più.

Le ostetriche, a quel punto, decidono di farla scendere e camminare fino alla sala parto, perché, con la testa del bambino praticamente fuori, era troppo tardi per pensare a un cesareo.

Mi fecero salire sul lettino in posizione litotomica e io continuavo a spingere senza risultati. Allora mi fecero l’anestesia locale e mi praticarono l’episiotomia. Posizionarono poi la ventosa e con una spinta uscì la testa, con la seconda anche il corpo. Probabilmente qualcuno fece anche della pressione sulla mia pancia ma di questo non ho ricordi nitidissimi. Alle 22.36 nacque Samuele con i suoi 3,070 Kg e 48 cm e subito tagliarono il cordone, posizionandomi il bambino sul petto.

Chiara viene poi ricucita di fronte a una schiera di specializzandi, mentre il marito, pronto per entrare ad assistere al parto, era ancora fuori. “Chiedeva quanto ci voleva, alla fine entrò dopo che era nato“.

Ero distrutta e nessuno si era accorto che avevo l’ago della flebo fuori vena, col risultato di un braccio enorme e pieno di liquido.

Passai la prima notte da sola, ero senza energie e avevo perso moltissimo sangue. Non ero in grado nemmeno di alzarmi dal letto. I punti tiravano da matti (quando chiesi quanti ce ne fossero non volevano rispondermi) ma cercai di dormire fino al mattino, senza il mio bambino che era rimasto al nido. Fu così anche per la seconda notte: mi passarono la tachipirina attraverso il catetere dell’epidurale, che ho tenuto per ben due giorni infilzata tra le vertebre“.

Chiara rimane in ospedale un totale di 10 giorni, a causa di una faringite curata poi con aerosol e antibiotico, e il riacutizzarsi della rettocolite ulcerosa.

Al rientro a casa Chiara soffre anche di depressione post partum, sceglie di interrompere l’allattamento al seno, fino a quando, un giorno, si accorge di un rigonfiamento al collo di Samuele.

Corsi al pronto soccorso con mio marito: ipotizzarono una tumefazione dovuta ad una manovra sbagliata al parto. Ci consigliarono di far fare al bambino una ecografia: l’esito fu sempre lo stesso, e bisognava tenere monitorata la crescita dell’ematoma. Io ero completamente annientata.

Lo spavento, però, per fortuna rientra, il bozzo scompare spontaneamente e lei, con la giusta informazione sulla compatibilità farmaco-allattamento e con l’aiuto di una consulente per l’allattamento, è tornata ad allattare naturalmente il suo bambino. “Un successo e una rivincita che ho voluto condividere attraverso la mia attività professionale di fotografa, sviluppando poi ulteriori progetti nazionali sulla mia patologia“.

Per la mia seconda gravidanza ho scelto un altro ospedale e mi sono fatta affiancare da una mia cara amica doula. La consapevolezza mi ha aiutata a realizzare un parto assolutamente rispettato e a sanare le ferite che avevo nell’anima e ancora nella carne.

I numeri parlano di molti episodi di violenza ostetrica, ma forse la verità è ancora più drammatica, perché molte donne si imbarazzano nel parlarne. Cosa si può fare per far capire che invece siamo di fronte a un problema molto grave?

“Non é facile parlare del proprio dolore, della violenza che subisce il corpo, ma ancora di più l’anima. A volte é imbarazzante, altre volte fa paura parlarne perché c’é sempre chi é pronto a giudicare. Eppure io credo sia fondamentale parlare e segnalare ciò che non va bene. Educare e sensibilizzare sono due verbi importanti per arrivare ad operare con empatia e rispetto. E questo lo si fa attraverso indagini e progetti, dove in primo piano si mettono le voci e i corpi delle madri“.

Cosa vorresti dire alle donne che hanno una storia di violenza ostetrica e non hanno avuto il coraggio di parlarne?

Non importa se dopo qualche mese o a distanza di qualche anno, l’importante é che ne parliate. Chiudersi a riccio é controproducente, accresce il dolore e l’isolamento. Aprirsi e condividere il proprio vissuto accresce la consapevolezza e dà l’importante possibilità ad altre donne di essere meno vulnerabili.
La connessione e la sorellanza salvano sempre.

In gallery vi mostriamo alcune delle foto di Chiara.

"Urlavano 'stai ferma' e io morivo di dolore", quella violenza ostetrica che non è normale
Fonte: ph. Chiara De Marchi
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