Perché per i bambini è importante inventarsi storie con personaggi
Potere alla fantasia, “facciamo finta che” e principio di rappresentazione: tre alleati che nei bambini, anche se piccolissimi, aprono possibilità non solo ludiche ma anche di apprendimento e di sviluppo cognitivo e sociale. Ecco perché.
Il gioco di finzione è un potente antidoto alla noia. I bambini lo sanno e ne fanno largo uso soprattutto in età prescolare, quando, a 18 mesi, cominciano a sfruttare nuove competenze linguistiche e i loro giocattoli per creare storie, racconti, avventure.
Piccole sceneggiature, ideate e realizzate dal bambino stesso, che non ammette variazioni se non quelle suggerite dalla sua fantasia e dallo stimolo esterno in arrivo dai suoi giocattoli preferiti.
Secondo lo studio “Taking Fiction Seriously: Young Children Understand the Normative Structure of Joint Pretence Games” pubblicato dall’American Psychological Association, questo tipo di gioco ha regole ben precise su cui il bambino, a partire dai 2 anni e con un picco intorno ai 6, ammette pochi cambiamenti da parte degli adulti (a meno che non rientrino nei suoi parametri). Guai a modificare il suo script, frutto di un vorticoso processo mentale mescolato a fantasia e flessibilità.
La psicologia dello sviluppo cognitivo e dell’apprendimento moderna punta tutto sul potere delle storie che il bambino inventa nelle sue sessioni di gioco individuale o in compagnia di coetanei, fratelli e genitori. Il supporto di giochi che lo aiutano a cavalcare (e imparare a riconoscere) le sue emozioni per crescere attraverso le storie è fondamentale: per questo circondarsi di giocattoli che spingono sulla sfera delle competenze sociali riproducendo modelli familiari e dinamiche in cui il bambino può non solo riconoscersi ma anche giocare attivamente è la base della sua crescita.
Giochi evergreen, sani e dal sapore nostalgico come le famiglie di animaletti e le decine di ambientazioni in catalogo di Sylvanian Families, offrono per esempio da anni ai bambini la possibilità di esplorare diversi schemi di gioco e creare le proprie storie liberamente, seguendo solo la loro fantasia.
Approcci pedagogici come quello montessoriano o steineriano inoltre puntano molto sulle abilità del bambino acquisite tramite la libertà di movimento e azione anche durante il gioco.
“Facciamo che io ero…”, quando la fantasia plasma la realtà
In psicologia questo modo di divertirsi e giocare si chiama “gioco simbolico” non a caso: attraverso l’uso di simulacri che simboleggiano, appunto, cose e persone della vita “vera”, il bambino tra i 2 e i 6 anni impara a ripetere azioni che osserva nel suo ambiente, a plasmarle secondo il suo volere. Jean Piaget, psicologo e pedagogista tra i più famosi del secolo scorso, ha scritto un’immensa letteratura in merito alle ragioni che spingono il bambino, alla fine della sua fase motoria, a costruirsi un universo di azioni, frasi e simulazioni personale.
Lo studio “Storytelling and Cognitive Therapy with Children” pubblicato su Journal of Cognitive Phsycotherapy applica il concetto di storytelling ai bambini, intendendolo come uno strumento fondamentale per lo sviluppo. Questo perché raccontare e raccontarsi storie spinge i bambini a:
- esplicitare pensieri
- identificare le proprie emozioni
- dare un senso al mondo
- aumentare il proprio grado di flessibilità
- sviluppare fantasia e autonomia
- riconoscere e ricostruire dinamiche che vive in prima persona (positive e negative)
E questi sono solo alcuni dei benefici del gioco simbolico. Secondo Ageliki Nicolopoulou della Lehigh University e il suo studio “Children’s Storytelling: Toward an Interpretive and Sociocultural Approach”, la narrativa creata dai bambini con le loro storie è una forma di azione simbolica che si collega alla costruzione della realtà e plasma la loro identità. Ma non solo: inventare storie, servendosi di giocattoli adeguati alla ricostruzione di una situazione che i bambini hanno vissuto in famiglia o a scuola o creandone di nuove seguendo solo la fantasia, secondo l’esperta spinge i bambini implicitamente a dare significato alle cose, a posizionarsi nel contesto socio-culturale in cui vivono, a muoversi nei gruppi con cui interagiscono.
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Va da sé che questo meccanismo simulatorio è importantissimo per approcciarsi correttamente a concetti come l’inclusione ma anche la rappresentazione: il bambino nel suo gioco finzionale può essere chi vuole o semplicemente può riproporre schemi che ha vissuto direttamente, di cui è stato protagonista. Può essere se stesso, oppure no.
Usare giocattoli in cui il bambino si riconosce – e la gamma di Sylvanian Families in questo senso è variegata appositamente, in modo da offrire ai bambini un universo praticamente infinito di opportunità creative – è fondamentale per mostrargli le varie possibilità esistenti e abituarlo all’idea che nessuna deve essere esclusa dal suo racconto. Proprio come il mondo è un calderone di persone, azioni e desideri, così è il gioco del bambino in questa fase dell’apprendimento.
E non solo: la diffusione di giocattoli che rappresentano razze e culture diverse ma anche quelle che rappresentano la diversity (ad esempio giocattoli con personaggi con disabilità) permettono a tutti i bambini di riconoscersi direttamente con quel simulacro, senza discriminazioni.
Il meccanismo che ci apre alle nuove prospettive, ci fa riconoscere l’altro e plasmare nuove storie in base a questa conoscenza nel bambino, secondo lo studio “Features of gender: An analysis of the visual texts of third grade children”, parte prima dei 5 anni. Proprio a questa età i piccoli cominciano a rendersi conto delle differenze di genere e razza ed è per questo che intersecare il gioco simbolico con varietà di scenari e schemi li aiuta a non costruire pre-concetti, a crescere consapevoli degli altri e di se stessi.
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L’importanza di costruire storie, ma anche di ascoltarle
Il potere di una buona storia non è solo insita nei racconti che fanno i bambini durante le loro sessioni di gioco di finzione. Secondo il professore ed autore Herbert Puchta, interrogato sul tema storie e bambini sul sito dell’Università di Cambridge, è l’oralità la chiave – sin dalla notte dei tempi – dell’evoluzione in ciò che siamo ora.
Secondo il professor Puchta, raccontare una storia ad alta voce ma anche ascoltarla fa bene. E questo perché sentire i suoni è un bisogno primario, un istinto spesso salvifico. Che diventa doppiamente importante se a quei suoni diamo un significato. Ascoltare le storie, oltre che inventarle, è un modo per dare senso al mondo, per identificarsi col protagonista o per ripensare, imparando a gestire le emozioni, a un episodio che ha turbato il piccolo e che non riesce ad elaborare da solo.
Leggere, ascoltare o inventare storie aiuta il bambino già in età prescolare a impostare l’adulto che sarà secondo molti pedagogisti, come Louise Rosenblatt che su questo argomento ci ha scritto un saggio dal titolo “Making Meaning with texts”.
Il genitore che legge storie al figlio sin dalla tenera età avrà un impatto sostanziale sui processi dell’apprendimento, oltre che sul suo rendimento scolastico. Come riportato dalla ricerca australiana “Reading to Young Children: A Head-Start in Life” tra i benefici della lettura ad alta da parte dei genitori sin dalla tenera età dei loro figli ci sono:
- Incremento delle capacità di lettura dei bambini
- Sviluppo maggiore delle competenze cognitive che i bambini sviluppano entro gli 11 anni
- Migliore rendimento scolastico
Il potere delle storie, create o ascoltate, ha benefici a lungo termine praticamente impossibili da quantificare. Un libro letto alla sera prima della nanna inoltre può ispirare il bambino con le sue storie, in un circolo virtuoso che non finisce una volta chiuse le pagine.
Quando inventare storie aiuta il bambino
Se è vero che il gioco di finzione crea universi ideali e piacevoli per il bambino, vale anche il contrario. A volte attraverso le storie i bambini trovano la forza di denunciare un disagio, di raccontarlo ed esplicitarlo.
Questo capita con i traumi “naturali” come l’arrivo di un fratellino, oppure un cambio di abitudini sostanziale nella sua vita o un episodio accaduto a scuola. Ma anche nei traumi più importanti, come la separazione dei genitori.
In alcuni casi il bambino, raccontando una storia grazie ai suoi giocattoli – a volte facendoli parlare e muovere riproducendo quanto avvenuto nella realtà – elabora anche episodi di bullismo e violenza che non riesce a spiegare a voce.
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Il caso emblematico lo si legge in uno studio di Vivian Vasquez che si chiama “So the Boys Won’t Bother Us” (“Così i maschi non ci daranno fastidio”), effettuata in una scuola materna. Ad alcuni bambini, nell’occasione dell’osservazione, era stato richiesto di disegnare o raccontare una storia, in particolare quella della renna Rudolph. Una delle sue alunne, Hannah, nel suo disegno aveva aggiunto un personaggio alla storia della renna di Babbo Natale, identificandolo con una X: si era praticamente inserita nella storia, per raccontarne una parallela. Hannah in quel modo intendeva raccontare gli episodi di bullismo subiti a scuola da parte dei maschi della classe: si era riconosciuta in Rudolph (renna vessata dalle sue compagne per via del suo naso rosso), vi si era identificata e l’aveva usata per dire a modo suo quanto stava provando.
In questo esempio (ma ce ne sono molti altri in letteratura) si riflette l’impatto delle storie, su chi le racconta e su chi le ascolta. In questo sta la vera forza del gioco simbolico, che nella teoria della mente diventa un super potere in grado di coltivare l’autostima, di riconoscersi, di simulare, di denunciare, persino. Di proiettarsi nel futuro e di diventarne protagonista. Senza limiti.
Bibliografia:
- “Taking Fiction Seriously: Young Children Understand the Normative Structure of Joint Pretence Games”
- “Storytelling and Cognitive Therapy with Children”
- “Children’s Storytelling: Toward an Interpretive and Sociocultural Approach”
- “Reading to Young Children: A Head-Start in Life”
- “Teaching Pre-School Children: The Importance of Stories”
- “Making meanings with text”
- “So the Boys Won’t Bother Us: Kindergarten Students as Researchers”
Creato per la prima volta in Giappone nel 1985, il marchio è stato lanciato con una sola casa, 11 mobili e nove famiglie di animali. Ad oggi si contano più di 25 famiglie di animali antropomorfi, una gamma amplissima di case, accessori e negozi. Sylvanian Families è venduta in tutto il mondo. Famiglia, amore e natura rimangono i valori fondamentali del brand.
Digital Editor di costume, online scrivo di serie tv, royals, attualità e lavoro. Mamma di una cinquenne con la testa di una preadolescente, calabrese nel sangue e torinese d'adozione, ho un'opinione su tutto e una tazza di caffè ...
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