“Le parole delle madri”, funambole, sopravvissute, affermate, disubbidienti - INTERVISTA

Perché si deve essere per forza madri e felici? Perché si deve scegliere tra figli e carriera? Perché ci si aspetta che tutte le neomamme amino i figli da subito? Silvia Icardi e Roberta Colombo Gualandri scavano nei tanti tabù e cliché sulla maternità in un libro che raccoglie le esperienze di 30 madri, famose e non.

Partiamo da un dato di fatto: le donne sono da sempre giudicate, qualsiasi scelta facciano. Vengono giudicate per come si vestono, per come lavorano, se si sposano o meno, se scelgono di diventare madri o no, e con gravidanza e maternità le cose non vanno meglio.
Troppi, ancora, i cliché legati ai fatidici nove mesi e al ruolo di madre, troppa la mitizzazione legata alla gravidanza e alla figura della mamma, con la conseguenza, inevitabile, di escludere e stigmatizzare chiunque non rientri negli standard imposti dalla narrazione maternalista voluta dalla società.

Perché non si può essere madri “pentite”? Perché siamo giudicate per il nostro corpo post parto? Perché dobbiamo necessariamente scegliere tra il lavoro e la famiglia? Sono alcuni degli interrogativi cui hanno cercato di rispondere le autrici Silvia Icardi e Roberta Colombo Gualandri nel libro Le parole delle madri, che raccoglie la testimonianza di trenta donne, famose e non, molto diverse fra loro, le quali, in tre pagine ciascuna, hanno raccontato il proprio vissuto come madri.

LE PAROLE DELLE MADRI

LE PAROLE DELLE MADRI

Silvia Icardi e Roberta Colombo Gualandri raccolgono le testimonianze di 30 madri, famose e non, che raccontano, in tre pagine ciascuna, la propria esperienza di maternità. Il libro si inserisce in un progetto per l'umanizzazione del reparto maternità dell'ospedale Mangiagalli di Milano.
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Icardi, giornalista del Corriere, e Colombo Gualandri, imprenditrice sociale, hanno diviso il libro in 10 capitoli per raccontare tipologie diverse di madri e forme differenti di maternità; ma Le parole delle madri ha uno scopo sociale ben preciso, che è quello di raccogliere fondi per l’umanizzazione del reparto maternità della Clinica Mangiagalli di Milano, per questo il progetto è stato finanziato assieme a Fondazione Rava.
Le abbiamo incontrate per una chiacchierata nel corso della quale abbiamo approfondito alcuni dei temi del libro.

A partire dalla prefazione emergono tre stereotipi fortissimi della società maternalista:
1. una donna per essere considerata completamente tale deve essere madre per forza
2. le donne incinte non possono avere pentimenti ma essere sempre e soltanto felici
3. tutte le donne hanno l’istinto materno
Seppur classificare sia piuttosto complesso, e una cosa non escluda l’altra, dato che spesso questi cliché sono banalmente legati l’uno all’altro, qual è quello che fa più male alle donne secondo voi?

Icardi: “Con Roberta abbiamo scritto questo libro a quattro mani, portando le nostre esperienze personali, che sono diverse, e io posso portare la mia. Ho cercato di avere un figlio dai 32 ai 37 anni, in un percorso che è stato oltremodo faticoso, sia dal punto di vista fisico che da quello psicologico, e per cinque anni ho vissuto in quel loop, con il pensiero costante che non avrei potuto avere figli, quindi per me senza dubbio la prima cosa è quella che mi ferisce di più, nonostante siano tutti molto fastidiosi.

Il pensiero che avrei potuto non avere figli mi ferisce ancora adesso nel profondo, e devo dire che in qualche modo l’ho superato solo recentemente, ma allo stesso tempo penso anche alla Silvia di allora con un po’ di pena, e alla luce del percorso che ho fatto dico che con la consapevolezza odierna la vivrei in modo diverso, con un’altra prospettiva: quella di una donna con una grande mancanza ma che ha fatto un percorso suo, anche attraverso la mia professione. Insomma, se non avessi avuto poi un figlio oggi la vivrei molto meglio. Ma allora non era così: pensavo che tutti mi capissero, che mi si leggesse in fronte quanto soffrissi, mi rendevo conto che guardavo le amiche con figli con un po’ di invidia, invece non era chiaro proprio nulla“.

Colombo Gualandri: “Come diceva Silvia, il libro è nato dalle nostre esperienze, che sono diverse: io, ad esempio, ho due figli ma vengo da una famiglia disfunzionale, con un padre alcolista e una madre depressa, sono cresciuta con una nanny e poi dal mio villaggio virtuale, rappresentato da nonne e zie, perciò il mio concetto di famiglia e di amore è diverso da quello della famiglia tradizionale, nonostante i miei genitori fossero ‘socialmente funzionali’, nel senso che erano belli, prestanti, sulla cresta dell’onda. La maternità per me è stata un’esperienza di gioia e leggerezza, ma non posso non premettere di aver avuto tantissimi aiuti, cosa che è fondamentale nella vita di una neomadre, ma non solo per ciò che riguarda le cose cosiddette ‘indispensabili’ come dormire o poter fare una doccia, ma anche semplicemente per riuscire a bere un caffè caldo e non dopo tre ore.

Invece nella società accade questo: se una neomamma si fa aiutare viene sottoposta al giudizio, se poi chiede aiuto perché desidera andare a fare un aperitivo con l’amica allora apriti cielo! Ecco, ciò che emerge dal libro e che mi infastidisce maggiormente è il fatto di essere costantemente sottoposte a un giudizio: se abbiamo un figlio, se non lo abbiamo, ogni situazione rispetto alla maternità è estremamente giudicante, non c’è serenità e, soprattutto, spesso non è chiara la pesantezza dell’essere madre. Fino a che sei incinta sei al centro del mondo, dopo vieni praticamente lanciata in mezzo al mondo da sola, in una dimensione del tutto nuova a cui nessuno, di fatto, ti dà il tempo di adattarti, e tutti si aspettano che tu faccia tutto senza lamentarti e che, soprattutto, diventi ‘figliocentrica’.

Mentre è socialmente accettato che un padre coltivi interessi e passioni, vada a giocare a padel o torni subito al lavoro, per le donne è diverso. Si hanno delle pretese nei confronti delle madri, delle aspettative che non riguardano quasi mai i padri”.

A proposito del ruolo dei padri, nel libro emergono anche figure di padri assenti, troppo presi dal lavoro o dagli interessi personali, mentre in Italia si continua a discutere di congedi di paternità ancora troppo brevi e inadatti a rappresentare davvero una misura di sostegno, alle madri in primis. Quale discorso va affrontato prima per risolvere l’altro, quello degli stereotipi culturali di stampo patriarcale o quelli delle politiche di maternità e paternità?

Colombo Gualandri: “In realtà i discorsi secondo me sono strettamente collegati, perché se già a un padre venissero riconosciuti due, tre mesi da passare con il proprio figlio significherebbe che la società ha riconosciuto il ruolo paterno e ha capito che l’uomo ha il compito di occuparsi del figlio.
Invece capita, soprattutto dopo i 25/30 anni, che gli uomini vengano valutati solo in base alla propria vita professionale. Ecco, se una legge dicesse agli uomini che in maniera obbligatoria devono stare con i figli per un tot di mesi, per me vorrebbe dire che la società ti accetta e riconosce come padre che ha il dovere, ma anche il diritto, di stare con suo figlio, e non solo come lavoratore“.

Icardi: “Anche perché parliamo di una perdita terribile anche per il padre. Alcuni uomini vivono come una violenza il fatto di essere ‘relegati’ al solo ruolo di lavoratori e di non potersi occupare del figlio, altri invece se ne fregano ma poi magari arrivano al punto in cui il bambino è un adolescente o quasi e improvvisamente hanno rimpianti e pensano a quanto tempo hanno sprecato.
Istituzionalizzare questo tempo sarebbe un passo avanti incredibile, ma per gli uomini in primis, perché questo concetto dell’uomo che ‘porta a casa i soldi’, che non si occupa della famiglia e dei figli ma deve solo lavorare può portare anche a delle vere e proprie situazioni di depressione“.

Dal libro di Colombo Gualandri e di Icardi emerge però anche un concetto estremamente basilare ma importante: maternità è diverso dall’essere madre. Le autrici ne spiegano il significato.

Colombo Gualandri: “Maternità è tutta la dimensione dello scegliere di avere un figlio, il cambiamento che nei nove mesi una donna fa nel viaggio per diventare madre, ma trovarsi a essere madre è lo scontrarsi con la realtà, se così vogliamo dire. Essere madre comporta un cambio dal punto di vista sociale, emotivo, privato; si può avere una maternità meravigliosa e poi affrontare un discorso come madre complicatissimo per mille motivi, per una depressione, per un senso di sgomento, per una malattia, un divorzio. Il fatto è che da quella dimensione non si può tornare indietro, tu sarai madre per i prossimi mesi, anni, per il futuro.

Tutte le donne delle nostre storie, pur con le loro esperienze estremamente diverse, sono legate da un fil rouge: tutte hanno sperimentato, per un periodo più o meno lungo, la solitudine. Perché, come dicevo prima, quando diventi madre tutti si aspettano che tu sia solo e soltanto quello, e spesso vieni abbandonata a te stessa, con i tuoi dubbi, le tue paure, il tuo senso di smarrimento, ma non puoi dare a vederlo. Devi essere sempre pronta e grata alla vita perché sei diventata madre, non c’è spazio per il pentimento, ma neanche ti viene concesso tempo per adattarti a questo nuovo compito, a un tipo di vita che, volente o nolente, non è più il tuo“.

Icardi: “L’essere madre è qualcosa che ha bisogno di tempo, non viene in automatico, si costruisce e può avere dei risvolti del tutto inaspettati. Ma le donne sono sottoposte alla mitizzazione della maternità a tutti i costi, e quando queste due figure – quelle della madre idealizzata dalla maternità e quella reale – non coincidono, nascono i sensi di colpa, di inadeguatezza, quel senso di solitudine di cui parlava Roberta. Perché lo storytelling sulla maternità è un falso, ma nessuno te lo dice, e nessuno ti prepara“.

In questa società così profondamente maternalista non c’è spazio per le debolezze. E qual è il prezzo che pagano le madri, anzi le donne?

Colombo Gualandri: “Quello di ritrovarsi a essere le prime che giudicano. Quando vieni giudicata da sempre, accade facilmente che qualsiasi modello che nella nostra testa ci possa far sentire più ‘leggere’ viene colpevolizzato e stigmatizzato“.

Pur essendo dedicato alle madri, il libro di Colombo Gualandri e Icardi non le descrive certamente come figure angeliche ed eteree, ma anzi affronta anche il lato delle madri che non reputano la maternità un privilegio o una fortuna ma che hanno dovuto, spesso con fatica, adattarsi a un nuovo tipo di vita e a un nuovo ruolo.

Quanto è importante parlare anche di questo aspetto della maternità per de-colpevolizzare quelle madri che troppo spesso si sentono inadatte solo perché non provano magari da subito quell’innamoramento di cui i cliché sociali ci hanno parlato, o che reclamano di voler essere “altro” rispetto alla sola figura materna?

Icardi: “Direi fondamentale, anche per il discorso che facevamo prima sull’irreversibilità della scelta di essere madre. Secondo me è il motivo per cui la nuova generazione è impaurita dall’idea di fare figli. La società, per cliché, ti impone di provare amore da subito per tuo figlio, ma non tutte sentono questo legame da subito, questa è la verità, e questa cosa spaventa, ti fa sentire sbagliata.
Anche se, c’è da dire, per fortuna si inizia a parlare un po’ di più di questo aspetto, e questa è l’unica strada per normalizzarlo. Ai tempi di mia nonna, ovviamente, nessuno avrebbe mai sognato mettere in dubbio la felicità di una neomamma, dandola per scontata. Ma non è così, la mia vita cambierà, e io potrei esserne così sconvolta da non sentire immediato quell’attaccamento verso mio figlio, che potrebbe venirmi solo in un secondo momento. E perché dovrei farmene una colpa?“.

Colombo Gualandri: “Ci vorrebbe una rete di volontari, di aiuto concreto alle neoamme, ma spesso si pensa che se una è in una condizione sociale normale allora non c’è motivo di pensare che le ci vorrebbe una mano. Non so dirti da cosa si dovrebbe partire per aiutare una donna a sentirsi madre ma in primis bene con se stessa, ma ti posso dire che anche quelli che dicono ‘Come facevano le donne di una volta che facevano tutto da sole e tornavano a lavorare nei campi subito dopo il parto?’ sbagliano di grosso.

Una volta non c’era quella dimensione sociale di solitudine che invece le donne affrontano oggi, c’era una rete familiare o parafamiliare che faceva quadrato attorno alla neomamma. Oggi, come ho già detto, le donne vengono lasciate troppo spesso sole nel momento in cui diventano madri, soprattutto se non rispondono a quegli standard di felicità che la società impone. Datemi tempo, datemi maggiore flessibilità, permettetemi di adeguarmi a questa nuova dimensione che sì, può anche spaventare molto. Mi trovo in un corpo che non è più il mio, che è cambiato, che non riconosco, e in più dovrei anche sopportare il peso del giuizio sociale?“.

Nel libro parlate anche della questione della eccessiva medicalizzazione della gravidanza. Ci sono tanti strumenti diagnostici, e vale la pena, sottolinearne l’importanza, ad esempio, per quanto riguarda le questioni dello screening prenatale nella diagnosi di alcune sindromi e
malattie, ma c’è un rovescio della medaglia che indicate.

Colombo Gualandri: “Il fatto è che le situazioni non sono uguali per tutte. Imporre questo tipo di medicalizzazione, con decine di analisi ed esami è eccessivo e può rivelarsi deleterio per alcune donne. Il libero arbitrio è fondamentale, e la medicalizzazione dovrebbe essere lasciata alla libera scelta, per chi ne ha bisogno, a livello fisico ma anche emotivo e mentale. Ogni situazione dovrebbe essere individualizzata, non buttata nel calderone, perché ogni storia è a sé e generalizzare non solo è banale, ma potenzialmente anche nocivo“.

A maggio il libro diventerà un Audible, ma Colombo Gualandri e Icardi stanno lavorando con due persone per trasformare il progetto in una pièce teatrale da portare sui palchi in autunno.

I capitoli del libro sono:

•Le introspettive
•Il capotribù
•Le sopravvissute
•Le affermate
•Partorire con il virus
•Stupefacenti madri
•Le ottimiste
•Le disubbidienti
•Madri al quadrato
•Le funambole

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