“E il fidanzato?”

“Allora, quando ti sposi?”

“E un figlio a quando?”.

Nell’ordine, il temutissimo e scontato trittico di domande con cui, prima o poi, devi confrontarti nella vita. Il partner, il matrimonio, un figlio, preferibilmente tutto in questa successione, perché queste sono le aspettative di parenti, vecchie zie, conoscenti e, più in generale, della società che può voler sbandierare quanto le pare di essersi emancipata da cliché e stereotipi vari su famiglia e affini, in realtà ne è ancora immersa fino al collo.

Per fortuna qualcuno che, in questi anni, ha provato a cambiare ritmo a un ritornello ormai fin troppo inflazionato c’è; qualche “temeraria” che ha provato a smuovere le acque dichiarando, candidamente e beatamente, di non avere né partner, né matrimoni, né figli nel proprio orizzonte personale. Che poi, sia chiaro, non prevedere un marito, uno sposalizio o un pargolo nella propria wish list non significa essere la nemesi della famiglia, essere per forza “contro” queste istituzioni o le persone che sono mogli, mariti, padri e madri. Semplicemente, ha solo a che fare con il diritto, sacrosanto e legittimo, di rivendicare la propria diversità di ambizioni rispetto a quelle che, canonicamente e culturalmente, dovrebbero essere le aspirazioni femminili.

Anni e anni di lotte portate avanti sotto l’egida del femminismo 2.0, quello che ha “laicizzato” la santità sociale del matrimonio per la reputazione delle donne, che gli ha tolto l’imbarazzante etichetta del “giorno più bello”, quello che ha gridato a voce alta che la maternità non è per tutte, perché non tutte la vogliono… E poi arriva questo.

Il cartellone pubblicitario è di un istituto per la procreazione assistita di Barcellona (la Spagna, come si sa, è una delle mete favorite da chi vuol ricorrere alla FIVET) sbarcato a Roma, il post pubblicato da una ragazza su una pagina Facebook, La pubblicità sessista offende tutti.

Perché, inutile negarlo, di questo stiamo parlando: di sessismo allo stato puro, esplicito, persino esasperato, sbattuto in faccia a chi si fa un mazzo così  per abbattere tutti gli odiosi stereotipi sulla donna che può sentirsi completa e realizzata solo se fa un figlio.

E non voglio, volutamente, parlare di chi, purtroppo, un figlio lo vorrebbe e non può averlo, che certamente non può non sentirsi toccata e umiliata da uno slogan del genere, che recita “La vita inizia quando senti il desiderio di un figlio”; ma proprio di chi un figlio non lo vuole, per scelta, per volontà, perché non si sente tagliata nel ruolo di madre, perché preferisce non essere genitore piuttosto che esserlo per rispondere alle esigenze della società, non alle sue.

Per queste donne la vita, seguendo la logica del cartellone, dunque, non inizierà mai? Saranno destinate a un’esistenza da zombie stile The Walking Dead perché in loro il desiderio di un figlio, seguito dalla sua conseguente realizzazione, non è nato e, probabilmente, non nascerà mai?

Allo stesso modo, chi ha raggiunto una certa età e ancora non ha figli deve ancora cominciare a vivere? Analizzandola dal punto di vista personale, devo dunque considerarmi una trentatreenne che ancora non ha vissuto neppure un solo giorno della sua vita e, probabilmente – seguendo la logica del cartellone – a questo punto non sa nemmeno se mai ne vivrà uno?

Già perché poco importa che, come fa notare qualcuno nei commenti, del cartellone esista anche un’altra versione, quella di coppia. La sostanza, ahimé, rimane la stessa, ed è quella che fornisce l’immagine di individui “incompleti”, claudicanti, mutilati se sprovvisti di un figlio e senza l’intenzione di farne. Soggetti destinati nemmeno a una vita “vuota”, ma addirittura a una non vita.

E dire che la storia ci ha consegnato splendidi esempi di donne che hanno dato vita non a figli, ma a progetti, idee e lavori altrettanto gratificanti e capaci di riempire di gioia e di soddisfazione, da Rita Levi Montalcini a Margherita Hack, senza dimenticare le parole di Oriana Fallaci, che per amore dei “suoi figli”, i suoi libri, rinunciò alla cura del cancro “Perché per ogni madre la salute del proprio figlio è più importante della sua”.

Vorremmo dunque davvero avere l’ardire di giudicare queste personalità come incomplete, “inesistenti”, perché la maternità non è mai stata compresa nella sfera dei loro interessi? Oppure sarebbe meglio riconsiderare le cose e imparare ad avere un’altra prospettiva, quella secondo cui per sentirsi “vive” sia indispensabile solo e soltanto seguire i propri sogni, comprendano essi il diventare una buona moglie o madre, il realizzarsi professionalmente, oppure entrambe le cose?

Perché qui non si tratta di rivendicare il diritto a non essere madri e quindi di scagliarsi contro la maternità; non è un aut aut, una battaglia improntata all’eliminazione reciproca, né una lotta anti-madri o anti-famiglia; semplicemente, è una presa di consapevolezza rispetto a quanto lunga sia ancora la strada da compiere per poter parlare davvero di abbattimento di cliché e di piena realizzazione delle libertà personali. Ed è inutile – e anche un po’ ipocrita – negare che un cartellone simile non riprecipiti di colpo la situazione a quarant’anni fa, quando una donna doveva aspettarsi frasi tipo “Sei mamma, ora finalmente sei una donna!”, oppure “Il giorno in cui nascerà tuo figlio sarà il più bello della tua vita”.

Fortunatamente, le donne riescono a regalarsi giorni belli, anzi bellissimi, che non necessariamente coincidono con l’esperienza del parto o con i giorni immediatamente successivi; fortunatamente, le donne vivono anche senza essere madri di bambini, ma magari di animali, di opere, di missioni. E nessuna di queste maternità deve essere ignorata, sottovalutata o degradata perché “meno importante”, “meno soddisfacente” o semplicemente “meno”.

Volendo concedere il  beneficio del dubbio, come qualcuno nei commenti al post ha accennato, forse i responsabili pubblicitari di Institut Marqués avevano un altro obiettivo, il messaggio dello slogan era diverso: “la vita inizia nel momento in cui desideri un figlio” con “la vita” che si riferisce a quella del figlio; in ogni caso, la comunicazione non è uscita proprio benissimo, per usare un eufemismo, e il risultato è diventato tutt’altro.

Di certo mi ha spinto a riflettere e la conclusione è che no, non mi ci vedo proprio nei panni della morta vivente, dello spirito infelice che vaga sulla terra senza missione; la cosa potrà sembrare sorprendente per alcuni nostalgici del XIX secolo, ma vivo, anche senza un figlio, e, come me, ogni donna e uomo a questo mondo, che siano padri e madri o che non lo siano. E considero sacrosante le parole della Hack:

Una persona dovrebbe mettere al mondo un figlio solo se davvero sente di potergli volere bene.

 

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