Il diritto all’aborto è da sempre oggetto di dibattito, sia in quelle nazioni in cui non è garantito dalla legge, sia in quelle nazioni in cui le norme che lo regolano sono in vigore ormai da decenni, come l’Italia o gli Stati Uniti.

In Italia la 194 è una legge fatta particolarmente bene, ma non sempre chi vuole un’interruzione volontaria di gravidanza la ottiene: questo accade per l’alto tasso, in particolare in alcune regioni rispetto ad altre, di medici obiettori negli ospedali pubblici, per cui nella ricerca del medico adatto alle proprie esigenze, si rischia di sforare con le tempistiche (ossia le 12 settimane entro cui si può eseguire un aborto chirurgico o, più spesso, farmacologico con la pillola abortiva Ru486).

Negli Stati Uniti la questione è più complessa, perché regolata dai precedenti della sentenza Roe vs Wade: di anno in anno, di presidente in presidente, di giudice della Corte Suprema in giudice della Corte Suprema, il diritto all’Ivg rischia di venire meno (anche se finora non è mai successo, neppure sotto presidenti o giudici particolarmente conservatori). Negli Usa, si può praticare la Ivg entro le 12 settimane di gravidanza e, esattamente come in Italia, anche dopo se sono a rischio la salute della madre e del nascituro. Ma c’è anche qualcos’altro che accomuna il Belpaese agli Stati Uniti.

In molte strutture italiane, come riporta Vice, sono presenti dei volontari anti-abortisti, che tendono a diffondere informazioni antiscientifiche sull’aborto. Secondo quanto riportato, si tratta di volontari che fanno parte di associazioni italiane, che tuttavia sono legate a un circolo statunitense, Heartbeat International, che è legato tra l’altro al presidente Donald Trump.

Tra le informazioni che questi volontari veicolano c’è l’alta possibilità di ripercussioni psicologiche sulla donna dopo l’Ivg (come per esempio abusi sui figli avuti successivamente) o anche fisiche, fino ad arrivare alla morte (che paradossalmente è la ragione per cui esiste il diritto all’aborto sicuro, cioè per evitare l’alto rischio di mortalità degli aborti clandestini).

Inoltre i dettagli della Ivg vengono raccontati alle aspiranti nel modo più cruento possibile. E alla fine accade che alcune donne decidano di tenere il bambino, anche se probabilmente non è la scelta che avrebbero voluto. Può capitare inoltre che altre non riescano a ottenere la Ivg perché fuori tempo massimo. Ma cosa accade a queste donne che non riescono ad abortire, quando invece vorrebbero farlo?

Il diritto d’aborto, la ricerca del Turnaway Study

La risposta si trova in uno studio scientifico del 2007, The Turnaway Study, tra l’altro confluito in un libro che però è disponibile solo in inglese, scritto dalla studiosa che lo ha condotto, Diana Greene Foster.

Per questo studio, svolto all’Università della California, sede di San Francisco, sono state reclutate 1132 donne trovate all’interno di 30 cliniche abortive in 21 Stati, mentre erano in attesa della loro interruzione volontaria di gravidanza. Alcune di loro riuscirono a ottenerla, mentre altre furono rimandate a casa per aver mancato il limite gestazionale fissato dalla clinica (ossia aver “sforato” di qualche giorno dal tempo limite per abortire legalmente).

Le donne sono state quindi divise da Foster in due gruppi: quelle che erano riuscire a ottenere l’Ivg e quelle che invece hanno dovuto portare a termine la gravidanza. Entrambi i gruppi sono stati seguiti per 5 anni (10 nell’ottica della pubblicazione realizzata poi): le donne sono state intervistate per due volte l’anno, anche se c’è stata una pur minima dispersione. Oltre 900 donne hanno comunque portato a termine l’esperimento, che è comunque un’ottima quota delle volontarie iniziali. I risultati, secondo Foster, hanno portato a una conclusione: ciò che è accaduto nelle vite di queste donne successivamente è relativo al fatto che esse abbiano ottenuto o non ottenuto l’aborto richiesto.

Le conseguenze dell’aborto, i risultati del Turnaway Study

Il fine del Turnaway Study è ovviamente chiarire come le persone dovrebbero essere libere (e garantite dalla legge) nelle loro scelte: i risultati, di fatto, smentiscono molti dei luoghi comuni diffusi dagli oppositori del diritto all’aborto.

Il 95% delle volontarie ha affermato, a 5 anni dal proprio aborto, che l’Ivg è stata (o sarebbe stata) la scelta giusta per loro, in base al fatto che l’abbiano o non l’abbiano ottenuta.

Alcuni eventi causano danni a vita – l’abuso infantile è uno di questi – scrive Foster, come riporta il New York Times – ma l’aborto non è sempre tra questi.

Il dato è quindi in contrasto con chi ha pensato, anche tra i giudici della Corte Suprema degli Usa, che l’aborto volontario potesse portare una donna a depressione e perdita di autostima. In realtà, nel Turnaway Study, la crescita d’ansia e la perdita di autostima è stata riscontrata tra le donne che non erano riuscite a ottenere l’aborto richiesto. A lungo termine sono stati riscontrati anche disturbi post-traumatici da stress, abuso di alcol e droghe.

In altre parole, eseguire l’aborto voluto non ha modificato in peggio la salute mentale delle volontarie, non ottenerlo sì. Inoltre le volontarie che hanno abortito hanno avuto successivamente relazioni più stabili e durature, hanno cercato volontariamente e portato a termine una o più gravidanze nei 5 anni successivi e si sono mostrate meno inclini a chiedere sussidi o aiuti statali (segno che avevano trovato una stabilità economica oltre che sentimentale). Inoltre, ci sono state complicanze fisiche dopo gli aborti? Una delle collaboratrici di Foster, Ushma Upadhyay, le ha riscontrate solo nel 2% dei casi: in pratica ci sono più complicanze per l’estrazione del dente del giudizio (7%) o del parto naturale (29%).

Il risultato più grosso è però questo: statisticamente le donne che desiderano un aborto, quando lo ottengono, stanno notevolmente meglio in ogni ambito della propria vita. Il che cozza con ciò che prevede la legislazione di gran parte dei Paesi che regolano legalmente l’Ivg. Queste leggi si basano sul fatto che le donne non sappiano scegliere per sé, che non conoscano le alternative all’aborto e le conseguenze del loro gesto. Non è così: ed è per questo (oltre che per una questione di libertà individuali) che il diritto all’aborto va difeso a spada tratta.

Chiaramente lo studio si basa su un indagine statistica, che non può avere valore assoluto per ogni singola esperienza. L’obiettivo però non è dimostrare che ottenere l’aborto porti sempre e comunque a una condizione di benessere migliore, bensì dimostrare che non ottenerlo potrebbe portare a condizioni molto più gravi di quelle a cui comunemente si pensa.

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