Ci facilitano la vita, ci aiutano nelle nostre attività, ci permettono di divertirci, informarci, connetterci. I dispositivi digitali sono giorno dopo giorno più indispensabili nelle nostre vite. A quale prezzo, però? La maggior parte degli utenti ritiene gran parte di queste attività gratuite, al netto del costo del dispositivo attraverso cui vengono fruite. Come è ormai ben noto, però, il grande business che ruota dietro le aziende del tech sono i big data e la moneta di scambio per salire sulla grande giostra digital sono i nostri dati. E non solo quelli.

Insieme alle nostre più o meno sensibili informazioni, infatti, stiamo condividendo con aziende che di quelle informazioni fanno profitto anche i dati dei nostri figli. Quello a cui non pensiamo è che la nostra – e la loro, seppure inconsapevole – attività digitale può avere delle implicazioni che non conosciamo ancora ma che potrebbero condizionare la loro vita futura.

Non parliamo soltanto del cosiddetto “sharenting” (da “share” = condividere e “parenting” = genitorialità) e della presenza di piccoli e piccolissimi sui social, su cui vengono condivisi decine e decine di attimi più o meno privati – dalle gite al bagnetto – che prima sarebbero rimasti raccolti all’interno dell’album di famiglia, tutto questo senza il consenso dei diretti interessati. Un aspetto su cui evidentemente non si riflette abbastanza ma che apre nuovi scenari anche nel campo del diritto, con i primi casi di bambini ormai cresciuti che hanno citato in giudizio i genitori per aver diffuso la loro immagine senza la loro volontà.

Parliamo del vastissimo universo digitale a cui consegniamo, più o meno consapevolmente, gran parte delle nostre esistenze e di quelle dei nostri figli di conseguenza: app per il tracciamento della gravidanza prima e della crescita del bambino poi, assistenti virtuali come Alexa e GoogleHome, che vivono assieme a noi e “ci aiutano” sfruttando l’intelligenza artificiale, ricerche su Google e canzoncine su Youtube.

Tutti strumenti che raccolgono centinaia di dati, li condividono, li scambiano e li aggregano, ufficialmente per poterci vendere prodotti che dovremmo essere più propensi a comprare e per orientare le nostre scelte di consumo, ma che potrebbero avere implicazioni molto più profonde.

I dati sul loro conto che vengono raccolti oggi, domani saranno probabilmente elaborati da molteplici sistemi di intelligenza artificiale e potranno influenzare le loro opportunità di vita in molti modi: quando cercheranno un impiego, o stipuleranno una polizza assicurativa o affitteranno una casa o accenderanno un mutuo.

Veronica Barassi, antropologa digitale, docente di Scienza della Comunicazione presso la Scuola di scienze umane e sociali dell’Università San Gallo e autrice del libro uscito nel 2021 “I figli dell’algoritmo”, ha spiegato in un’intervista a Pediatria, il magazine della Società Italiana di Pediatria, la “datificazione” a cui sono soggetti i piccoli che stanno crescendo nel nuovo mondo digital first.

Un fenomeno la cui responsabilità, dice Barassi, non è da attribuire ai genitori. Anzi. La pandemia ha accelerato e reso più visibile questo processo – iniziato però già da una ventina di anni – attraverso la digitalizzazione di una serie di attività e settori, dalla DAD attraverso gli strumenti forniti dalle aziende del tech alla datificazione dei dati sanitari. I genitori hanno troppo spesso la “colpa” di usare con leggerezza molti strumenti di cui accettano policy senza nemmeno leggerle ma, dice la ricercatrice,

tutta la nostra economia si basa sui dati, molte delle nostre leggi sulla privacy si basano sull’ idea del consenso e della trasparenza, senza però tenere conto del fatto che non solo le persone non leggono la policy sulla privacy, ma molte volte non hanno scelta perché il sistema attorno a loro è datificato.[…] Il problema è che il linguaggio utilizzato per il consenso al trattamento dei dati è talmente complesso che io stessa, che da 5 anni studio i modelli per la privacy, mentre scrivevo un libro, scherzando, dicevo che mi sentivo stupida.

Sebbene queste aziende non violino alcuna legge condividendo i dati con terzi – questo è anzi a tutti gli effetti il loro modello di business – quando si tratta dei dati dei più piccoli la situazione si fa ancora più complicata. Pensiamo alle app per monitorare la gravidanza o i primi mesi del neonato: molte coppie in attesa o neogenitori condividono i dati dei loro piccoli su questo strumento che è certamente molto utile e spesso percepito come indispensabile, ma che fine fanno questi dati?

Secondo uno studio pubblicato sul British Medical Journal vengono utilizzati per creare dei «profili digitali dei bambini» addirittura prima della loro nascita: su 24 app mHealth analizzate, infatti, 19 hanno condiviso i dati degli utenti con terzi, che a loro volta li hanno ricondivisi con quelle che vengono definite «quarte parti», tra cui figurano diverse società di pubblicità e persino un’agenzia di credito.

Ai pericoli della condivisione delle immagini dei minori e delle loro vite sui social – che già diverse Istituzioni come il Garante della Privacy e la Polizia Postale avevano messo in luce – si aggiungono quindi quelli derivati dai possibili utilizzi e dalle possibili implicazioni dell’enorme mole di dati che ogni giorno le aziende – perché di questo si tratta, non dimentichiamolo mai: aziende che hanno come obiettivo primario guadagnare – raccolgono sui nostri figli, dandoli così in pasto all’algoritmo.

Se per quanto riguarda il primo aspetto sono i genitori a dover avere la massima attenzione a che tipo di contenuti condividono e, soprattutto, con chi, è necessario non attribuire alle famiglie la responsabilità di questa raccolta e condivisione massiva di dati e, soprattutto, non pensare che la soluzione possa essere un semplice “evitate di condividere informazioni” perché ormai, troppo spesso questa non è una soluzione possibile. Un esempio su tutti? L’utilizzo di Classroom di Google da parte delle scuole durante la pandemia.

Più che parlare di quello che fanno i genitori, avverte Barassi, bisognerebbe puntare lo sguardo e il dibattito pubblico su quello che fanno le Big Tech, che hanno nelle loro mani responsabilità ben maggiori:

Si parla molto dei genitori, spesso colpevolizzandoli, mentre poco si parla di quello che c’è dall’altra parte, per esempio del fatto che un’azienda americana abbia preso dai social network le facce di milioni di persone in tutto il mondo per creare un database di riconoscimento facciale che viene utilizzato dalla polizia e da altri agenti federali in un altro Paese. O del fatto che i dati che vengono processati dal social TikTok finiscano in Cina, o del fatto che sia YouTubeKids di Google che TikTok negli ultimi anni siano stati multati per avere violato le leggi sul COPPA e GDPR che proteggono i bambini.

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