Istinto materno: il crollo di un mito che, onestamente, ha fatto parecchi danni
Per anni ci hanno cresciute con il mito dell'istinto materno. Sì, abbiamo usato proprio la parola "mito", perché, in fondo, di questo si tratta.
Per anni ci hanno cresciute con il mito dell'istinto materno. Sì, abbiamo usato proprio la parola "mito", perché, in fondo, di questo si tratta.
Insomma, chiunque (o quasi) delle donne fra noi che hanno esplicitamente manifestato il disinteresse verso la maternità, affermando di non sentire un particolare istinto materno, si saranno probabilmente sentite rispondere “Parli adesso perché non hai figli, ma quando ne avrai vedrai come ti esce!”, dando per scontato che in tutte questa predisposizione verso la genitorialità esista, pur se latente.
Tralasciando i sensi di colpa instillati nelle donne non diventate madri da decenni di cultura tradizionalista, quella, per intenderci, che ha sempre dipinto le donne non madri come “non realizzate” o “incomplete”, vi spieghiamo perché la questione dell’istinto materno è priva di credibilità, e ha fatto molti danni.
Alla fatidica domanda rispondiamo con un secco no: e per motivare questa risposta ci basiamo sulle parole della dottoressa Gillian Ragsdale, antropologa biologica che insegna psicologia alla Open University nel Regno Unito, la quale sostiene che la parola “istinto” venga usata ripetutamente nel contesto della genitorialità, perché è spesso confusa con un “impulso”.
In realtà, spiega la dottoressa, gli esseri umani hanno pochissimi istinti, tanto che persino per quanto riguarda il cibo non si può parlare di “istinto” (altrimenti non si spiegherebbero i milioni di persone che fanno diete ogni giorno in tutto il mondo). Se una donna sceglie di non diventare madre, anche i cambiamenti biologici che si verificano durante la maternità non avverranno, perché non scatta l’impulso materno, che Ragsdale attribuisce agli ormoni.
La condotta materna può essere influenzata ormonalmente, ad esempio dalla gravidanza – spiega a Medium – Questo avviene anche in altri mammiferi. Una volta che la prole è lì davanti a loro – è allora che la spinta materna in genere entra in azione – ma non sempre nemmeno allora.
Certo è che, per quanto lavoro lo sviluppo dell’impulso materno richieda, proprio perché non innato ma conseguente alla gravidanza, per la società è comunque più accettabile e normale attribuirlo alle donne che non agli uomini, perpetuando così ruoli di genere che alla fine sostengono una società patriarcale.
C’è un termine, usato dagli inglesi, baby fever, che indica proprio la ricerca spasmodica di un bambino, ma che, secondo Ragsdale, non è che un efficace strumento di marketing per proporre baby shower e portare avanti banali stereotipi sociali, fra cui, appunto, quello dell’istinto materno.
Il concetto di istinto materno patologizza le donne che non vogliono avere figli. Abbiamo un problema con il patriarcato. È vantaggioso ritrarre le donne come caregiver naturali affinché sentano che è un dovere.
A suffragare le parole di Ragsdale anche la professoressa Maria Vicedo-Castello che, riesaminando le opinioni scientifiche sull’istinto materno, nel suo libro The Maternal Instinct ha concluso che:
non esistono prove scientifiche per affermare che esiste un istinto materno che dà automaticamente alle donne il desiderio di avere figli, rende le donne più emotive degli uomini, conferisce loro una maggiore capacità di educazione, e le rende meglio attrezzate per allevare i bambini rispetto agli uomini.
In effetti, a ben pensarci, se le donne fossero davvero nate con un istinto materno, i tassi di natalità probabilmente sarebbero rimasti invariati negli anni. Questo a prescindere dalle rivoluzioni culturali del movimento femminista degli anni ’60 e ’70, che ha ampliato le opportunità educative e di forza lavoro per molte donne. Eppure, negli ultimi anni si è assistito a un sempre più rapido crollo delle nascite in moltissimi Paesi, fra cui l’Italia.
Molto spesso non ci rendiamo conto, da donne, del tipo di pressione sociale cui siamo sottoposte se entriamo nell’argomento “figli”; se per alcune, infatti, la gravidanza purtroppo non arriva, neppure dopo anni di tentativi, per altre la scelta child free è assolutamente consapevole e voluta.
In effetti ci aspetteremmo di non doverci trovare ancora a ragionare sul perché una donna non voglia diventare madre, né tantomeno di giustificarci per la nostra scelta; eppure, accade esattamente il contrario, come se le donne fossero sottoposte al costante giudizio sociale rispetto al tema “figli”, e non è raro che c’è chi decida di uniformarsi alla “massa” unicamente per compiacere proprio quelle aspettative che la società ci riserva. Che è poi il motivo per cui non è esagerato sostenere che la storia dell’istinto materno a tutti i costi abbia fatto più danni che altro verso il genere femminile.
Uno studio del 2015 intitolato Regretting Motherhood, della sociologa israeliana Orna Donath, si è occupato proprio delle cosiddette “madri pentite“. La sua ricerca, basata sulle interviste a 23 madri israeliane pentite di aver avuto figli, sostiene che mentre la maternità “può essere una fonte di realizzazione personale, piacere, amore, orgoglio, contentezza e gioia” allo stesso tempo può diventare foriera di “angoscia, impotenza, frustrazione, ostilità e delusione, nonché un’arena di oppressione e subordinazione”.
Questo non significa, aggiunge la sociologa, che queste madri non amino i figli, ma che probabilmente, tornando indietro, avrebbero adottato una scelta diversa.
L’impulso ideologico di essere una madre è fondato sulla potente concezione che la completa felicità femminile possa essere raggiunta solo attraverso la maternità. Coloro che cercano di sfidare questa narrazione affrontano un’opposizione schiacciante, e la cosa rende difficile un dibattito onesto e aperto.
Del resto, il premio Nobel per la letteratura Toni Morrison diceva
La maternità non è più un ruolo onnicomprensivo per le donne ora, può essere un ruolo secondario o non devi sceglierlo
Eppure ancora oggi affrontiamo un dualismo serrato fra la donna/madre, giudicata generosa, altruista, buona, e la donna/non madre, che è caratterizzata come egoista, poco femminile o, peggio, “difettosa”.
Guardiamo poi i casi estremi, quelli ad esempio di abbandono o infanticidio, in cui si parte dal presupposto che la madre sia una persona malvagia o psicotica, uniche ragioni che renderebbero più “comprensibili” certi osceni atti di crudeltà verso un bambino. Ma le statistiche mostrano che, tragicamente, le madri uccidono i propri bambini più spesso di quanto ci piace pensare, e molte di loro non sono malate di mente. Il tasso di omicidi di bambini di età inferiore a un anno è maggiore rispetto a qualsiasi altra fascia d’età.
Uno studio del 2013, che ha esaminato i casi di figlicidio in Inghilterra e Galles a partire dal 2006, ha rilevato che, in poco meno di un quarto dei casi, le colpevoli erano adolescenti, disperate e spaventate, che sentivano di non avere altra scelta.
Insomma, la maternità è più complessa di quanto spesso si ritenga, e lo sbaglio che compiamo è che, mentre siamo assolutamente certi che il benessere del bambino dipenda dalla madre, non ci preoccupiamo affatto del contrario, ovvero delle esigenze della madre stessa.
Il problema è sempre lo stesso, alla fine, e riguarda proprio la disparità di ruoli di genere che si sono tramandati nel tempo: se infatti la maggior parte della psicologia riproduttiva nel corso della storia si è basata sull’idea che “gli uomini fanno figli perché vogliono fare sesso o lasciare un’eredità”, per le donne si è sempre pensato che la gravidanza fosse un istinto primordiale irrinunciabile (che è poi il motivo per cui la scelta child free è ancora da considerarsi un tabù culturale). Niente di più falso.
A incidere psicologicamente in maniera rilevante sulla decisione di una donna di fare figli è proprio lo status sociale cui sente di appartenere in quanto donna; essere biologicamente predisposta a fare figli non significa avere anche la propensione mentale adatta a diventare madre, tanto che la stessa psicoanalisi sostiene che il desiderio di avere un figlio non risponda a un bisogno vitale delle donne, ma sia semplicemente una necessità specifica di ognuna.
Quindi l’istinto materno non è altro che un paradigma utile a mascherare un’impostazione squisitamente sessista della società, tanto che, poco sorprendentemente, non esiste un istinto paterno (anche se i genitori sono due). Non si pretende dagli uomini che provino attrazione e simpatia verso ogni bambino, ma lo si richiede alle donne, nonostante le ricerche citate poc’anzi abbiano ampiamente dimostrato che ciò che scatta, al momento della gravidanza (e solo allora) sia soprattutto un impulso derivante dai cambiamenti ormonali.
I più “romantici” di noi continueranno a voler pensare che ogni donna nasconda un istinto materno in sé, e può anche andar bene così, purché questa linea di pensiero non venga spacciata per scienza e non diventi, in maniera pretestuosa, la “giustificazione” per considerare complete solo le donne che diventano madri.
Giornalista, rockettara, animalista, book addicted, vivo il "qui e ora" come il Wing Chun mi insegna, scrivo da quando ho memoria, amo Barcellona e la Union Jack.
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