La sindrome di Medea: quando un genitore distrugge i figli per vendicarsi del partner
La sindrome di Medea è una faccia del figlicidio, un terribile delitto perpetrato sia dalle madri che dai padri.
La sindrome di Medea è una faccia del figlicidio, un terribile delitto perpetrato sia dalle madri che dai padri.
Il fenomeno, però, è più complesso di quello che si possa pensare e il fatto che gli abusi vengano perpetrati da una donna o da un uomo ha poca importanza. Quello che conta è approfondire il fenomeno capendone le dinamiche e le cause.
La sindrome di Medea deve il suo nome all’omonimo mito greco narrato da Euripide all’interno della saga degli Argonauti e della conquista del Vello d’Oro nel poema epico Le Argonautiche di Apollonio Rodio, risalenti al III sec. a.C.. Medea è figlia di Ecate, dea dell’Oltretomba e di Eeta, figlio del Sole e re della Colchide, una regione ai confini del mondo greco, e per questo è dotata di poteri magici straordinari.
La triste fama di questo personaggio femminile è legato ad uno dei delitti più terribili che si possano compiere: l’uccisione dei propri figli. Nella narrazione di Euripide, Medea e l’argonauta Giasone hanno avuto due bambini e vivono la loro vita familiare in serenità fino a quando Creonte, re di Corinto, propone all’eroe di prendere in sposa la figlia Glauce e ottenere così la successione al trono. Giasone accetta l’offerta ripudiando Medea che viene travolta dal dolore e dalla collera che la spinge ad uccidere prima la sua rivale e poi la prole come gesto estremo di vendetta nei confronti del tradimento dell’amato.
Veramente non è andata proprio così. Euripide ha deliberatamente distorto la figura di Medea e la narrazione originaria dipingendola come una donna iraconda, profondamente malvagia, sovversiva e manipolatrice. Dietro ai 15 talenti d’argento, si dice, ricevuti per questa rielaborazione, si nasconde uno scopo più alto legato alla civiltà di quel tempo e al significato simbolico che doveva trasmettere il mito.
Medea, maga e guaritrice, donna saggia proveniente dalla cultura matriarcale di Corinto, come avrebbe potuto compiere un gesto del genere? Questa incongruenza viene elaborata a tavolino per rinnegare la versione del mito raccontata da Creofilo nel suo poema La presa di Ecalia.
In questi versi si dice che Medea, fuggita ad Atene dopo aver assassinato Creonte, fa rifugiare i figli nel tempio di Era, ma i Corinzi, furibondi, li catturano e li lapidano a morte. Così per occultare questa versione del mito, gli interessati se la sono rifatta sulla maga, riversandole addosso tutta la misoginia possibile. Ecco un esempio delle parole che Euripide mette in bocca alla maga:
Noi donne siamo per natura incapaci di buone azioni, ma sapientissime artefici di ogni male.
Medea non è solo una donna con poteri soprannaturali, è anche portatrice dei valori della Colchide, la terra da cui proviene: diventa promotrice della libertà intellettuale e dell’emancipazione femminile, in una cultura dove una donna può mantenere la sua indipendenza e la quantità d’oro posseduta non definisce il valore di un essere umano.
Agli occhi dei Corinzi tutto questo è inaccettabile, in quanto promotori di una mentalità diametralmente opposta. Se pur sono stati disposti ad ospitare i Colchi in quanto rifugiati, il massimo che gli offrono è la possibilità di esercitare i propri culti esclusivamente al chiuso, oppure convertirsi completamente alla loro cultura.
In questo contesto storico la figura mitologica di Medea racchiude quindi un potenziale estremamente pericoloso, come donna sovversiva che si ribella al potere, un rischio che i Corinzi volevano a tutti i costi evitare.
Ad accendere ulteriormente i riflettori sul mito e la sua interpretazione inedita, ci ha pensato la scrittrice tedesca Christa Wolf nel libro Medea. Queste pagine sono il frutto di un’accurata ricerca in collaborazione con alcune studiose che ha fatto emergere fonti antecedenti alla versione di Euripide, dove Medea oltre a non aver ucciso i figli, cerca anche di salvarli portandoli al santuario di Era prima di essere costretta all’esilio.
Grazie a Margot Schmidt, ricercatrice e archeologa, Christa Wolf scopre le citazioni di Pausania, un erudito di età romana noto per la selezione programmatica di fonti arcaiche e poco note, talvolta anche orali, il quale affermava l’esistenza di poemi di Eumelo e Carcino dove la morte dei figli di Medea avveniva in modo casuale o per volontà dei Corinzi.
La scrittrice si fa orgogliosamente promotrice del riscatto di Medea, ingiustamente accusata di uno dei crimini più terribili che si possano commettere.
In psicologia la Sindrome di Medea, o Complesso di Medea, è
il bisogno della madre di assassinare il proprio figlio come mezzo di vendetta contro il padre.
Questo gesto estremo e criminale è frutto di una situazione portata all’escalation che ha a che fare con il fenomeno dell’alienazione genitoriale o parentale, chiamata anche PAS (acronimo di Parental Alienation Syndrome). A coniare il termine è stato lo psichiatra americano Richard Alan Gardner che la definisce come:
Un disturbo che insorge quasi esclusivamente nel contesto delle controversie per la custodia dei figli. In questo disturbo, un genitore (alienatore) attiva un programma di denigrazione contro l’altro genitore (genitore alienato). Tuttavia, questa non è una semplice questione di “lavaggio del cervello” o “programmazione”, poiché il bambino fornisce il suo personale contributo alla campagna di denigrazione. È proprio questa combinazione di fattori che legittima una diagnosi di PAS.
L’amarezza e il risentimento scaturiti dalla fine della relazione di coppia ricadono sui figli e questo va ad impattare lo sviluppo della personalità del bambino, della sua salute mentale e del suo comportamento.
Wallerstein e Kelly (1980) e Jacobs (1988) hanno sviluppato dei lavori in cui hanno chiamato sindrome di Medea la condizione del divorzio in cui i genitori usano i figli come un’estensione di loro stessi, senza comprenderli come persone diverse. Hanno considerato evidenti somiglianze tra questa condizione di divorzio e le caratteristiche emotive e comportamentali presenti nel falso mito di Medea.
Nel suo libro intitolato “I figli nelle separazioni conflittuali e nella (cosiddetta) PAS (Sindrome di alienazione genitoriale). Massacro psicologico e possibilità di riparazione”, Francesco Montecchi, specialista in Neurologia e Psichiatria, Neuropsichiatria infantile e Criminologia Clinica evidenzia come i figli coinvolti mostrino una posizione del tutto aderente al genitore alienante, solidarizzando con lui: mostrano infatti disprezzo nei confronti del genitore alienato che è oggetto delle peggiori accuse, e nutrono così nei suoi confronti un forte risentimento che li spinge ad allontanarvisi.
Il rapporto malato con il genitore alienante, che corrisponde spesso con la madre Medea, porta allo sviluppo di un rapporto morboso e patologico con il figlio che in breve tempo diventa vittima della manipolazione psicologica. Da qui, nei peggiori casi, le cose si aggravano ulteriormente, sfociando in vera e propria violenza, fisica e/o psicologica.
Quello che diventa l’ultimo e tragico epilogo di una relazione genitoriale o parentale tossica vede la madre esercitare il suo massimo potere sul figlio, che, come spiega lo psicologo Stefano Becagli, nel momento dell’assassinio giunge all’apice del delirio di onnipotenza.
Quali sono le cause che portano una madre a porre fine alla vita dei suoi figli? Uno dei più accreditati studiosi italiani della sindrome di Medea è Giancarlo Nivoli, Presidente della Società Italiana di Psichiatria Forense, che individua in determinate situazione il potenziale germe del figlicidio da parte della madre:
Secondo il professor Nivoli, raramente le madri figlicide sono spinte a compiere tale gesto da un’unica motivazione, bensì i fattori scatenanti sono spesso un mix, da una condizione psichiatrica critica unita al senso di inadeguatezza al ruolo genitoriale, all’unione della depressione post-partum con maltrattamenti pregressi in famiglia.
Come premesso, anche se prende il nome di un personaggio mitologico femminile (mal interpretato per secoli), il tragico fenomeno del figlicidio non può e non deve essere rilegato esclusivamente alla dimensione materna. Anche se per i media tende a fare meno notizia, l’uccisione dei figli per mano del padre è un fenomeno rilevato da numerosi studi che hanno cercato di comprendere se e in che misura il genere possa giocare un ruolo. Ebbene, non ci sarebbero differenze sostanziali a livello statistico tra il numero di infanticidi commessi da un genitore piuttosto che dall’altro, mentre ad essere diversa è la percezione che si ha dell’assassino in rapporto al suo genere.
Cristina Virduzzo, psicologa e psicoterapeuta, in un suo scritto affronta la questione menzionando studi che portano alla luce come negli anni ’70 ad esempio, le donne che si macchiavano di questo crimine erano considerate malate mentali più che assassine e il 68% di queste veniva ricoverato negli ospedali psichiatrici mentre la percentuale rimanente andava in prigione. Per i padri invece, è stato registrato come il 72% finisse in galera mentre il 28% nei manicomi.
Altre ricerche hanno evidenziato come la giustizia stessa tratti diversamente madre e padre (anche questa constatazione non va comunque generalizzata): le donne figlicide vengono definite “buone anormali” a differenza dei padri che quasi per definizione sarebbero “cattivi normali”, quindi a parità di reato, le madri vedono la prigione molto meno rispetto agli uomini.
Un elemento che influenza l’ago della bilancia potrebbe essere legato al fatto che i padri uccidono i figli in modo più violento rispetto alle madri, con un conseguente incarceramento dell’84% rispetto al 19% delle madri come evidenziato nello studio sulle differenze di genere nel figlicidio nello studio An Examination of the Mental Health and Negative Life Events of Women Who Killed Their Children.
I numeri parlano chiaro e il fenomeno sembra essere tristemente in ascesa in Italia secondo quanto rilevato dal rapporto Eures “Omicidio in famiglia”:
nel 2018 si sono verificati 31 figlicidi, con una crescita del +47,6% rispetto all’anno precedente (erano 21 le vittime nel 2017). Questi 31 figlicidi sono stati commessi in 20 casi dai padri (pari al 64,5%) e in 11 casi dalle madri (pari al 35,5%).
La responsabilità delle madri è stata esclusiva nei 4 omicidi di figli di età inferiore ad un anno, scendendo al 40% nella fascia di età successiva (2 figli di 1-5 anni uccisi dalla madre e 3 dal padre), al 33,3% nella fascia 6-13 anni (2 a fronte di 4 figli uccisi dai padri) e attestandosi al 18,8% nei figlicidi degli over 13 (3 sui 16 complessivamente compiuti).
Rilevare i sintomi e i campanelli d’allarme della sindrome di Medea non è semplice, soprattutto quando nei figli non si nota nessun abuso evidente come lividi o ferite. Bisogna quindi fare caso anche ad altri dettagli relativi al comportamento che potrebbero essere inconsueti: bambini straordinariamente apatici, taciturni o timorosi in maniera innaturale, potrebbero aver subito abusi.
Quello che si può fare è rivolgersi a uno psicologo per un consulto, senza farsi prendere da falsi allarmismi ovviamente, e capire insieme come procedere. Convincere un genitore a sottoporsi ad una terapia e quindi fargli ammettere di avere un problema non è facile, ma sicuramente un tentativo è necessario per sventare quelle che potrebbero essere delle conseguenze fatali.
Il maltrattamento sui figli è un tema delicato ma sul quale è importante mantenere sempre i riflettori puntati e che ha a che fare con la complessità di essere genitori. Sono molte le responsabilità e lo stress a cui la coppia deve far fronte, su questo argomento si pronuncia anche il dottor Tonino Cantelmi:
Nel fenomeno in crescita degli omicidi di bambini – spiega – si mescolano diversi fattori di rischio ma in generale, quello cui assistiamo, è il crollo delle capacità genitoriali di accudimento, di protezione e di assunzione di responsabilità nei confronti dei propri figli.
Lo psichiatra sottolinea l’importanza di un sostegno psicologico ed educativo che prepari le coppie alla genitorialità perché come da lui stesso riscontrato in un’indagine svolta per la Regione Lazio, su un campione di 200 giovani donne, l’insicurezza e la paura di essere inadeguate ci sono, e per questo è sempre più importante accompagnare il futuro genitore in questo percorso, per il suo benessere e soprattutto per quello del bambino.
Lettrice accanita, amante dell'arte e giornalista. Ho da sempre il pallino per la scrittura.
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