È di inizio mese la terribile storia del calciatore turco Cevher Toktaş, che il 4 maggio si è autodenunciato alla polizia per l’omicidio del figlioletto di appena 5 anni.

Non lo amavo.

Queste sono le parole che le forze dell’ordine avrebbero sentito, mentre l’uomo ricostruiva la vicenda: mentre si trovava con lui nell’ospedale pediatrico di Bursa, in Turchia (il piccolo era risultato positivo al COVID-19) Cevher avrebbe preso un cuscino fino a soffocarlo, chiamando poi i dottori e parlando di una crisi respiratoria.

Il 4 maggio, mentre ero a casa con mia moglie, ho ripensato all’accaduto e mi sono sentito turbato – ha poi rivelato – Sono uscito dicendole ‘ho del lavoro da fare’ e sono andato alla polizia. Non ho mai amato mio figlio da quando è nato, e ho detto la verità. La morte di mio figlio non è frutto di negligenza medica, l’ho ucciso io. Io non ho problemi mentali, o nessun problema in assoluto. Non ho nessun problema con mia moglie e con l’altro figlio.

Il calciatore ora rischia una condanna all’ergastolo per l’omicidio del suo bambino.

Al femminile la chiamano la Sindrome di Medea, prendendo spunto dalla mitologia classica per definire gli infanticidi compiuti da parte delle madri. Ma a uccidere i figli non sono solo le donne; restando sempre nell’ambito della letteratura classica, e della leggenda, potremmo prendere in prestito la vicenda del Conte Ugolino così come descritta da Dante nei canti XXXII e XXXIII dell’Inferno, passato alla storia come il “conte cannibale” che si cibò dei suoi stessi figli.

Ma cosa può spingere un padre ad ammazzare il proprio figlio? Le motivazioni (se vogliamo chiamarle così) sono diverse rispetto a quelle di una madre?

Perché un padre uccide il proprio figlio

Dovremmo metterci in un’ottica irrazionale, ovviamente, per provare a entrare nella mente di un genitore che toglie la vita al figlio che ha messo al mondo; è chiaro che le concause psicologiche che si intrecciano sono talmente tanti, variabili e sensibili che parlare in maniera univoca, ovviamente, è impensabile. Lo sottolinea anche Isabella Merzagora, professore ordinario di Criminologia all’Università degli Studi di Milano e presidente della Società Italiana di Criminologia: c’è la malattia mentale, in alcuni casi, ma in altri anche un disagio esistenziale o il desiderio irragionevole di vendicarsi del partner attraverso i figli.

Nelle stragi familiari si creano dinamiche particolari per cui disperazione e depressione vanno spesso di pari passo, e la necessità di uccidersi può portare il “desiderio” di portare con sé proprio chi si ama di più. C’è però da dire che, mentre l’infanticidio perpetrato dalla madre avviene con metodi meno violenti (ammesso e concesso che nei casi di omicidio si possa parlare di “maggiore o minor violenza”), e molto spesso quando il bambino è appena neonato, gli uomini usano modalità più cruente.

I tre tipi di padri – killer

Lillian De Bortoli, ricercatrice della Swimburne University in Australia, ha identificato tre tipi di padri che uccidono i loro figli:

  • Maschio de facto: parliamo di un fidanzato subentrato successivamente alla nascita del bambino, che in genere ha una storia di abusi infantili subiti. Gli assassini di questo genere sono piuttosto violenti.
  • Padre separato: i suoi figli sono “sue proprietà”. Molto spesso nel passato di questo padre c’è una storia di abusi di cui lui è autore, verso la ex compagna o verso i figli, e talvolta proprio  l’abuso potrebbe aver provocato la separazione. Perciò il movente dell’omicidio è la vendetta contro la madre, e spesso l’uccisione avviene durante le controversie sulla custodia.
  • Padre in coppia: un padre che uccide i suoi figli mentre la famiglia è ancora intatta, in genere ha una storia criminale. Uomini del genere rischiano potenzialmente di diventare assassini in generale, e di annientare la famiglia al completo, includendo anche suoceri, genitori, o chiunque sia presente al momento della tragedia.

In ciascuna di queste categorie alla base possono ovviamente esserci problemi di salute mentale che rendono l’uomo suscettibile alla rabbia, all’ossessione e ad altri stati d’animo tossici, ma non necessariamente parliamo di individui psicotici, che hanno cioè un’alterata percezione della realtà.

È possibile non amare il proprio figlio?

È obiettivamente una domanda dalla risposta complessa, ma non dobbiamo pensare, in maniera molto semplicistica, che questa eventualità non esista. Esistono sicuramente genitori anaffettivi, che nonostante spesso si prodighino per provvedere a tutti i bisogni materiali dei figli, non mostra mai segni di affetto o empatia, ragion per cui il bambino percepirà di non essere degno dell’amore del genitore.

Non riuscire a entrare in empatia con il figlio significa ignorare quelli che sono i suoi desideri e le sue attitudini, per considerarlo solo come un proprio prolungamento. Alla base dell’incapacità di amare i figli può esserci un’immagine negativa che il genitore ha di se stesso, che, proprio per la ragione che abbiamo appena detto, si estende automaticamente anche al figlio. È chiaro che, non amandosi, non si riesca neppure ad amare qualcosa che noi consideriamo una nostra appendice.

In altri casi l’incapacità può derivare dal fatto di aver vissuto un distaccamento disfunzionale con le proprie figure genitoriali, senza mai sviluppare uno schema equilibrato e una propensione all’affetto; in questa situazione non si fa altro, per mancanza di altre informazioni, che ripetere ciò che si è sempre vissuto, considerandolo come la sola forma corretta di approccio.

 

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