"Quella notte in ospedale con mio figlio neonato nel letto: la solitudine e il dolore"

L'ideologia maternalista e l'enfasi sulle pratiche intensive di maternità che vengono fatte passare per naturali, e naturali non sono, stanno uccidendo madri e figli. Lo dicono i dati e le statistiche che denunciano, tra le altre cose, come l'assistenza alla maternità sia classista e razzista. Ce ne sono molti. Ma in queste ore, dopo il dramma della madre il cui neonato è morto all'ospedale Pertini di Roma, presumibilmente soffocato dalla donna crollata esausta nel sonno, migliaia di donne hanno scelto di uscire dai numeri, rappresentarsi da sole, alzare e unire le loro voci. Aggiungo la mia: ché la mia storia "privata" di maternità diventi "politica".  

Inizio con la mia storia, in breve. Ho rotto la acque la notte tra sabato e domenica; mio figlio è nato lunedì pomeriggio con parto indotto dopo aver appurato il fatto che, nonostante le contrazioni che si erano andate intensificando dal tardo pomeriggio del giorno precedente, non dilatavo a sufficienza.

È stato quello che in gergo si definisce un parto asciutto., anche se il termine è improprio. Senza richiedere il mio consenso, mi sono state fatte sia l’episiotomia sia la manovra di Kristeller, più volte, due pratiche ostetriche controverse – quest’ultima in particolare prevede una compressione addominale sul fondo uterino – e sconsigliate dall’OMS, ma di cui si fa largo uso nei blocchi parto. L’epidurale, invece, mi è stata negata a lungo perché “Signora, dipende se vuole un parto medicalizzato o un parto naturale!. In fase espulsiva mio figlio, stremato quanto me, ha perso il battito cardiaco e mi è stato letteralmente strappato fuori a mezzo di una ventosa chiamata kiwi, con conseguente lacerazione interna ed esterna di cui taccio i dettagli per pudore e decenza.

A quel punto non dormivo da più di trenta ore. Né sarebbe successo nelle ore successive.

La prima notte ho lasciato mio figlio al nido qualche ora con la scusa di riposare: non ho chiuso occhio.
Il mio corpo tremava, e per quanto non riuscissi a stare in piedi per più di quindici minuti senza che la vista si annebbiasse, non sapeva concedersi riposo. La mia mente neppure: il mio bambino era nato da poche ore e io ero già una madre insufficiente. “Non esageri: conservi le energie per spingere“, “Su, su, signora, partoriamo tutte così, non è la prima”, “Massimo un paio d’ore e poi viene a prenderlo o glielo porto io. Queste ore sono fondamentali per il bambino, e deve stare con la sua mamma”, e poi sbuffi, sopracciglia alzate, e “Signora, se facessero tutte come lei…”.

La seconda notte, dopo un’altra giornata di insonnia interrotta solo da brevissimi sonni convulsi, quando mi sono presentata con la culla alle ostetriche del turno di notte mi hanno rispedita in camera: “E no, poi torna a casa ed è da sola, cosa crede?”. Lo ero già.
Quando a metà notte ho fatto presente che non ce la facevo più, un’ostetrica ha preso mio figlio dalla culla, l’ha messo nel letto con me, mostrandomi come lasciargli il seno a disposizione: “Così intanto riposa un po'”.
“E se mi cade?” – Ha sollevato la sponda del letto.
“E se lo schiaccio mentre dormo?” – Non succede, mi disse, aggiungendo qualcosa sul fatto che l’istinto di una mamma è vigile anche mentre dorme e ‘sente’ il suo bambino.

È successo. Non a me, ma poteva succedere (anche) a me.

Da giornalista, ritengo che questo sia il momento della notizia, senza commenti e senza tribunali mediatici.
Nella notte tra il 7 e l’8 gennaio, nel reparto di ginecologia dell’ospedale Sandro Pertini di Roma, un neonato è stato trovato morto nel letto della madre: si presume soffocato dal corpo della donna che, stremata da 17 ore di travaglio, si sarebbe addormentata dopo l’allattamento. Inutili, le richieste di aiuto della donna, che avrebbe fatto presente la sua spossatezza ma sarebbe stata sollecitata a non sottrarsi all’adempimento dei suoi presunti “doveri materni”.
Il fascicolo aperto dalla Procura di Roma per omicidio colposo è al momento contro ignoti e la madre figura come parte offesa, in quanto vittima di un comportamento omissivo o comunque scorretto da parte del personale. La cartella clinica della donna è stata acquisita dagli inquirenti, mentre per i risultati dell’autopsia sarà necessario attendere circa sessanta giorni.

Da madre, però, conosco la solitudine, il dolore e la disumanizzazione subiti dalle donne prima, durante e dopo il parto nei reparti di maternità italiani e nel mondo. Li ho sperimentati sulla mia pelle, me li hanno raccontati la maggior parte delle donne che hanno condiviso con me il racconto dei loro parti e del post. Lo sta gridando una marea di madri che ingrossa di ora in ora: appresa la notizia, migliaia di donne hanno sollevato le loro voci a dire il sopruso, l’alienazione, l’insostenibilità dell’estetica della maternità che ci vuole madri sacrificali votate al neonato ben oltre i nostri limiti fisici e psicologici, e ci pretende gioiose di esserlo, anche a discapito della nostra salute mentale.

Ho fissato mio figlio tutta la notte, allora, senza neppure riconoscerlo. Lo sentivo avverso, altro da me, un intruso infagottato da man esperte affinché stesse adeso al mio corpo e se ne servisse al bisogno. Ho aspettato, per ore, che qualcuno venisse a cambiargli un pannolino: alienata dalla sofferenza e dalla solitudine, solo al mattino mi sono resa conto che quel qualcuno ero io. Per mesi dopo l’arrivo di mio figlio, il mio è diventato un mondo subacqueo, ovattato ed estraneo, fatto di veglie e poche ore di incubi. Eppure nelle foto di quel periodo sembro felice, e mio figlio è accudito come ci si aspetta che faccia una brava mamma. La violenza ostetrica e l’estetica della maternità performativa hanno un ruolo, comprovato, nello sviluppo della depressione post partum.

Da giornalista, rivendico la necessità, almeno per chi fa questo lavoro, di non anticipare le emozioni ai fatti, il proprio vissuto (o il vissuto di molte persone) al caso specifico e, soprattutto, di non presumere con certezza come siano andate le cose finché non sia noto cosa è accaduto, non dico oltre ogni ragionevole dubbio, ma almeno con i risultati delle indagini preliminari alla mano. Ma è pur sempre da giornalista, oltre che da madre, che so dove stanno le colpe e le vittime in questa storia ignobile: ché l’ideologia maternalista e l’enfasi sulle pratiche intensive di maternità che vengono fatte passare per naturali – anche per sopperire alle carenze di personale e deresponsabilizzare la sanità pubblica e privata -, e naturali non sono, stanno uccidendo madri e figli.

Lo dicono i dati e le statistiche che denunciano, tra le altre cose, come l’assistenza alla maternità sia classista e razzista. Ce ne sono molti. Ma in queste ore migliaia di donne hanno scelto di uscire dai numeri, rappresentarsi da sole, alzare e unire le loro voci. Aggiungo la mia, ché non credo nella divisione netta tra le due sfere – privata e pubblica -, che spesso si intersecano tra loro e si nutrono a vicenda. Ché la mia storia privata di maternità diventi politica.

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