Sono le 19 di un giovedì sera. Il mio compagno è fuori per delle commissioni. È in quel momento che un amico mi chiama: ha letto che la Regione Campania ha chiuso le scuole per due settimane. Non mi ha detto altro, non sa bene cosa stia accadendo.

eguono momenti febbrili e di nervosismo: sono chiuse anche le scuole dell’infanzia? Sono chiuse solo le pubbliche o anche le paritarie? La preoccupazione è tanta e non solo dal mio punto di vista.

Mi trovo in Campania, nell’area metropolitana di Napoli. Il coronavirus sta tornando a fare paura oggi più che mai. Anche le comunità che in precedenza sembravano essere lontane dalla pandemia, ora ne sono state travolte. E se vi dicessi che non ho paura io stessa vi mentirei. Ma c’è che è confortante attenersi alle regole: lavarsi le mani, indossare la mascherina, tenere il distanziamento sociale e tutto quello che c’è scritto nell’ultimo Dpcm.

La chiusura delle scuole campane però arriva per me come una stilettata. Ieri sera ero sopraffatta dai pensieri. Pensavo: sono in casa in smartworking con mio figlio di 4 anni e mezzo. Che non mi farà lavorare. Perché vuole (giustamente) giocare, perché ha bisogno (giustamente) di essere adeguatamente stimolato. Stamattina sto facendo quello che posso: tra un rigo e l’altro di questo articolo provo a farlo scrivere, disegnare, modellare le formine con la plastilina, suonare lo xilofono. Per fortuna che ha imparato a leggere e ora ho un po’ di tregua mentre sfoglia un libro che si chiama Mi piaci così. Ma c’è qualcosa che io non posso sostituire: il gioco con gli altri bimbi.

Io non contesto la scelta di chiudere le scuole in senso stretto. Muovo perplessità sul fatto che la questione poteva essere organizzata meglio, sia per non fermare, ancora una volta, il processo di crescita dei bambini, sia per permettere alle famiglie di operare le giuste scelte logistiche. Che fine hanno fatto i figli delle donne lavoratrici nel primo giorno (e forse nei successivi) di scuole chiuse? Molti presumibilmente saranno con i nonni, spostando così il pericolo di contagio verso una fascia di popolazione a grande rischio. Per chi è in smartworking come me e ha la nonna lontana, significa tenere il proprio figlio accanto mentre si lavora e cercare di farlo uscire indenne da queste giornate (e uscire indenni a propria volta).

Un articolo del New York Times sugli effetti famigliari della pandemia, sottolinea come i bambini siano più inclini culturalmente a rivolgersi prima alla madre per ogni loro bisogno. Tanto che secondo la rivista Gender, Work & Organization, nelle coppie eterosessuali in cui sia la madre che il padre lavorano e hanno figli sotto i 13 anni, sono le donne ad aver ridotto le ore di lavoro da 4 a 5 volte più dei padri, accrescendo il divario di genere nell’orario di lavoro del 20-50%. Tra aprile e maggio 2020, secondo il sondaggio Census Household Pulse, l’80% degli americani adulti a casa per prendersi cura dei figli a causa della chiusura scolastica erano donne.

Un altro articolo del New York Times riporta il rapporto del Boston Consulting Group, secondo cui le madri trascorrono settimanalmente 15 ore con i figli in più dei padri. Ma anche prima della pandemia, le donne con bambini avevano più probabilità degli uomini di essere preoccupate per le loro valutazioni delle prestazioni sul lavoro e del loro benessere mentale e di dormire meno ore, dividendosi tra carriera e impegno famigliare. E in Italia?

Il Corriere della Sera riporta i dati Inps, secondo cui a fine maggio 2020 c’erano 750mila occupati in meno rispetto a fine maggio 2019, mentre mezzo milione di precari risultavano senza occupazione. A pagare il prezzo più alto sono state le donne: 330mila lavoratrici (il 3,36% contro l’1,99% degli uomini) hanno perso il loro impiego, perché afferente a uno dei settori particolarmente colpiti dal lockdown e dalla crisi economica che accompagna ormai la pandemia, ossia turismo, moda, ristorazione e commercio al dettaglio.

La pandemia ha quindi, come riporta un altro articolo del Corriere, amplificato il divario di genere nel mondo del lavoro: già da prima non è che le politiche di sostegno alle donne e alle madri lavoratrici fossero sufficienti. Durante il lockdown il 60% delle donne italiane, contro il 21% degli uomini, ha dovuto gestire in completa solitudine figli, casa, parenti anziani e spesso anche lavoro in lockdown. Tanto che il 50% delle donne hanno messo in pausa o rinunciato a una serie di progetti lavorativi.

Se guardiamo la situazione della Campania, ci sono anche altri aspetti da esaminare. Il focolaio di quest’estate a Mondragone ha rivelato un problema annoso delle regioni del Sud di cui si parla troppo poco: il lavoro nero, sotto caporale, che coinvolge uomini e donne, un impiego che non conosce diritti, pause e naturalmente tutele né per la salute né per nessun altro aspetto della vita di chi è coinvolto. Moltissime donne lavorano in campagna sotto caporale, italiane ma spesso anche cittadine europee che provengono da Paesi come Romania, Ucraina, Polonia, Bulgaria. Dove sono ora i figli di queste donne che stamattina, all’alba, si sono recate in campagna per lavorare e torneranno solo al tramonto, «da sole a sole» come si diceva un tempo?

Una delle obiezioni che qualcuno potrebbe sollevare è: la scuola non è un parcheggio. Ha ragione, la scuola non ha la funzione di un parcheggio. Tuttavia, in una società bilanciata, non solo le responsabilità dovrebbero essere divise in famiglia (senza dimenticare tra l’altro le mamme single), ma soprattutto ogni ambito sociale dovrebbe fare la sua parte. La funzione della scuola è quella educativa, ma ignorare il fatto che è la permanenza a scuola dei figli a permettere spesso a entrambi i genitori di lavorare sarebbe ingenuo.  Se non si vuole che la scuola diventi un parcheggio, occorre che la politica fornisca altre strutture o altri aiuti alle famiglie, e non chiudere gli occhi davanti alla realtà e le orecchie alle richieste di aiuto.

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