I “turni di gravidanza” in Giappone, dove sono altri a scegliere quando resti incinta

In Giappone sono stati istituiti dei veri e propri "turni di gravidanza", che impongono alle donne il momento per restare incinte, in base alle esigenze lavorative. Chi non accetta di rispettare il calendario della maternità ha, spesso, una sola scelta: abbandonare il lavoro.

“Messhi boukou”, una frase che in giapponese significa “uccidere la tua vita privata per servire” e che racchiude la filosofia cardine della cultura che fu, soprattutto, dei samurai, ma che ancora oggi si ritrova nel popolo nipponico, in particolare sotto il profilo lavorativo.

Rinunciare alla propria vita privata per il massimo profitto dell’azienda, sacrificarsi, quasi h24, in nome del benessere aziendale, fondersi con la propria professione fino a farsi assorbire completamente. Può essere una mentalità più o meno discutibile, ma è una realtà che i giapponesi portano avanti con cura e convinzione da generazioni, e che investe, in questo senso, anche il ruolo della famiglia nella cultura del paese.

Perché dalla regola del “messhi boukou” le donne, vien da sé, non sono escluse, e, con la loro vita privata, anche i desideri di maternità e di allargamento della famiglia devono, conseguentemente, essere subordinati principalmente all’interesse del datore di lavoro, al bisogno di competenza ed efficienza e all’indispensabilità della donna stessa come lavoratrice.

Insomma, è ormai prassi tristemente diffusa anche nella nostra società domandare a una donna, in fase di colloquio di assunzione, se abbia figli o intenda averne, come se eventuali velleità di maternità fossero una discriminante tale da incidere in maniera pesante, spesso determinante, sulle future opportunità di assunzione (solo per le donne ovviamente, come se in questo senso la paternità rappresentasse ancora un’entità a sé che non inficia, in alcun modo, con le prestazioni lavorative). Ma certamente è curiosa – e non in senso positivo – la logica messa in piedi in Giappone, dove le donne hanno veri e propri turni che sono loro concessi per restare incinte. E guai a sgarrare, pena una sonora sgridata dal capo – se si è fortunate – o il licenziamento.

I motivi di questa decisione: perché è stato imposto il “calendario delle gravidanze”

Fonte: web

Dal XVIII secolo e fino alla prima metà del XIX la popolazione del Giappone è rimasta stabilmente a circa 30 milioni di abitanti, ma dopo la restaurazione Meiji del 1868 l’espansione demografica è stata tanto rapida da raggiungere nel 1926 i 60 milioni, mentre nel 1967 il paese superava i 100 milioni di abitanti. In base al censimento del 2010, la popolazione giapponese ha raggiunto il suo picco a 128.057.352 abitanti, ma negli ultimi anni si è registrato un importante decremento, dovuto soprattutto a uno scarso tasso di immigrazione e a politiche volte a contenere il tasso di natalità, fra cui proprio il “calendario delle gravidanze”. Il quale è una pratica oramai consolidata nel mondo lavorativo giapponese e che, benché ritenuta illegale da molti avvocati, si è resa indispensabile soprattutto in luoghi di lavoro come asili nido e ospedali.

La politica dei turni di gravidanza è considerata dai datori di lavoro “equa”, mentre molte donne, che hanno voluto parlare del tema ad Afp, hanno spiegato che in questo modo il sistema ha l’effetto di far pressione sui novelli sposi o sulle donne più mature che, per non perdere il proprio turno, devono sbrigarsi per fare un figlio. Il Giappone occupa il primo posto tra i paesi del G7 per quanto riguarda la rappresentanza femminile in politica e affari, ma certamente questa è una situazione davvero particolare per le donne, che si trovano costrette a mettere al mondo un figlio solo rispettando turni prestabiliti con le colleghe, per non lasciare scoperti troppi posti di lavoro contemporaneamente. Le cose, inevitabilmente, peggiorano se si desidera una seconda maternità…

Le testimonianze

Fonte: web

Molte donne, ma anche uomini, hanno raccontato le proprie esperienze ad Afp, in un articolo poi ripreso anche da Repubblica.

Proprio un uomo, ad esempio, ha scritto una lettera al quotidiano Mainichi Shimbun per far conoscere la storia della moglie, rimasta incinta “fuori turno”, che si è sentita rispondere dal capo “Come hai potuto violare le regole senza chiedere?“. Mentre Mayu – nome di fantasia – dopo aver rispetto il proprio turno ha ripreso il suo lavoro di infermiera. “Ho chiesto al mio capo di farmi fare un programma di aggiornamento per una futura promozione, ma la sua reazione è stata sconvolgente“, ha raccontato la donna, spiegando che la caposala le ha rinfacciato la maternità. “Hai preso un congedo di maternità e hai lavorato meno, che altro vuoi?“.

Fra le testimonianze c’è anche quella di Sayako – altro nome di fantasia – che, quando ha detto di volere un secondo figlio, si è sentita rispondere “Hai già un bambino, perché non ti prendi una pausa?“.

La precedenza per avere un figlio l’aveva una collega, appena sposata. Insomma, a decidere non sarebbe stato il famigerato “orologio biologico” di Sayako, ma una decisione aziendale. Che lei non ha accettato, con la conseguente perdita del lavoro. Perché un aspetto della realtà del “calendario delle gravidanze” è proprio questo: se non sei disposta ad aspettare il tuo turno, puoi licenziarti e vivere serenamente la maternità a casa.

Ero scioccata e stordita. Me ne sono andata, altrimenti fossi rimasta incinta avrei dovuto chiedere addirittura ‘scusa'”.

Oggi Sayako ha dato alla luce il suo secondo figlio.

Il bivio: donna lavoratrice o mamma casalinga

E così, mentre ci sono molti paesi nel mondo dove il numero di casalinghe si è praticamente azzerato e sono molte le opportunità concesse alle mamme lavoratrici, in Giappone spesso le donne che non intendono sottostare a un calendario per programmare la propria maternità, e quindi la vita, si trovano di fronte a un bivio che non lascia scampo: o i figli o il lavoro.

Una situazione purtroppo non diversa da quella vissuta, seppur per ragioni diverse, in altri paesi del mondo, dove alla base della sofferta decisione ci sono però soprattutto ragioni di tipo economico; in Giappone, invece, tale scelta non deve essere fatta per una “carenza di benessere”, ma solamente per limitare il numero delle nascite.

O lavori o fai la casalinga. Per i ‘nostri’ ideali se rimani incinta puoi anche lasciare il lavoro“, ha spiegato Kanako Amano, ricercatrice alla NLI, come riporta Repubblica. “La pratica è diventata normale per la maggior parte delle impiegate. Alcune donne, addirittura, non si rendono conto dell’ingiustizia, ma si sentono grate per aver ottenuto la maternità“.

 

 

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