"Quando diventi mamma e sei costretta a dare le dimissioni per tornare a essere felice"

Nel 2016 il 78% dei dimissionari, sono state mamme. La maggior parte di loro, ha sostenuto che la motivazione del recesso fosse l'impossibilità di conciliare vita familiare e lavorativa. Questa è la storia di Marta, che ha lasciato il lavoro per tornare ad essere felice.

Lavoravo in quello studio da tre anni. Sono architetto, laureata con lode e appassionata da sempre di interior design.
In quei tre anni avevo dato il mio meglio, avevo dato tutto quello che potevo dare. Stavo al lavoro fino a tardi, non avevo orari. Se c’era da finire qualche progetto, restavo e lo terminavo. Amavo quel lavoro e tutti i miei colleghi lo notavano. Ogni mattina entravo in ufficio sorridendo, ero sempre entusiasta e disponibile con tutti. In tre anni ottenni due aumenti di stipendio perché ero brava e il mio lavoro era molto apprezzato. Il mio capo non faceva che complimentarsi, era felice dei risultati che ottenevo e più di una volta mi disse che ero “preziosa per lo studio”, che senza di me non sarebbe stata la stessa cosa.

Finché un giorno, non rimasi incinta.

Convivevo da qualche anno con il mio compagno e ci sembrava il momento giusto per metter su famiglia. Avevamo entrambi degli ottimi lavori e dei buoni stipendi, ci mancava solo di coronare la nostra bella vita con un figlio.

Quando rimasi incinta ero al settimo cielo. Lo dissi subito a tutti i miei amici, già le prime settimane. Tre mesi dopo, la pancia iniziava a crescere e pensai che fosse il momento di dare la notizia al lavoro. Non era affatto preoccupata. Anzi, ero convinta che il mio capo sarebbe stato felice per me, certo avrebbe dovuto organizzare i mesi di maternità ma pensai che comunque non avrebbe fatto alcuna storia, perché sapeva quanto amore mettevo nel mio lavoro.

Infatti mi fece le congratulazioni e mi disse di stare tranquilla, che avrebbe organizzato tutto senza problemi, che avrei potuto godermi felicemente la mia maternità.

Ma già dal giorno dopo l’annuncio, qualcosa cambiò.

I colleghi iniziarono a non chiedermi più niente. A non fare più affidamento su di me. Appena mi arrabbiavo per qualcosa, magari perché qualche cantiere andava avanti con i giusti ritmi e rischiavamo di ritardare la fine dei lavori, qualcuno commentava “sono gli ormoni” oppure “sta per avere una ventata di calore!”. Io mi ero sempre arrabbiata per certe cose al lavoro, proprio perché ero appassionata e ci tenevo che tutto andasse come previsto. Ma ora era diverso. Non potevo più arrabbiarmi. Non potevo più polemizzare, perché ero vista come una che parlava a sproposito. Una che, visto che era incinta, non aveva più il controllo delle sue emozioni.

Anche il rapporto con il mio capo cambiò, in modo abbastanza repentino. Prima mi affidava i progetti più ostici perché sapeva che ero capace di gestirli. Ora invece, mi relegava in un angolo. Chiedeva supporto a qualche mio collega uomo. Mi parlava a stento, ma quando ci incrociavamo era sempre gentile, mi chiedeva come stessi e se avevo bisogno di una sedia ergonomica. “No, ho bisogno che tu non mi ritenga un’invalida solo perché sono incinta!” avrei voluto urlargli. Ma non dicevo niente. Inizialmente, pensavo che fosse normale che mi demansionassero un po’. “In fondo tra poco andrò in maternità, hanno bisogno di organizzarsi” mi dicevo. Ma più il tempo passava, più mi rendevo conto che mi stavano emarginando. In uno studio che andava a gonfie vele, dove si lavorava anche 12 ore al giorno, non c’era spazio per le donne incinta. Erano solo di ostacolo alla crescita. Lo capii troppo tardi.

La felicità di avere un figlio però, non mi abbandonò. Ad un certo punto della mia gravidanza, decisi di prendermi cura di me stessa e meno del lavoro. Non volevo crearmi ansie o dispiaceri in un momento così emozionante della mia vita. Lavoravo giusto le mie 8 ore e me ne tornavo a casa, dove il mio compagno mi massaggiava i piedi e mi preparava le alette di pollo.

Quando entrai in maternità, nessuno al lavoro venne a salutarmi. Me ne andai nel più totale anonimato. Quando partorii, scrissi una mail a tutti i colleghi, perché mi sembrava bello. Pochi mi risposero con un semplice “Congratulazioni”. Non sentii più nessuno, se non l’addetta all’amministrazione per dei documenti.

I mesi di maternità furono bellissimi, ma passarono troppo in fretta. Tornata al lavoro, trovai un clima peggiore di quello che avevo lasciato. Sembrava che nessuno si ricordasse di me, del lavoro che avevo fatto, dei risultati che avevo raggiunto. Il mio capo mi disse “bene, sei tornata giusto in tempo. I prossimi mesi saranno un delirio!”.

Mi misero a lavorare senza sosta. Il mio orario doveva essere dalle 9 alle 18, ma mi chiedevano spesso di rimanere fino alle 19 o 20.

Ma io non potevo. Dovevo prendere dei permessi perché mio figlio aveva l’influenza. Dovevo chiedere di uscire prima per passare dal pediatra. Poi le ore di allattamento previste dalla legge, l’asilo nido che ad un certo orario chiudeva. Una serie di impegni a cui non potevo proprio rinunciare. Non potevo, e soprattutto non volevo perché tenevo certo al mio lavoro, ma mio figlio ovviamente aveva la priorità. Prima di partorire ero sempre stata convinta che sarei riuscita ad equilibrare il lavoro con il bebè, ero sicura di potercela fare. “Non sarò una di quelle mamme isteriche” mi dicevo tra me e me. Ma dovetti proprio ricredermi.

Al lavoro non mi davano tregua, mi riempivano di cose da fare e quando chiedevo un permesso, il mio capo alzava gli occhi al cielo e sbuffava. Qualche volta acconsentiva con fatica, altre volte me lo negava perché “c’è troppo lavoro da fare”. Iniziarono anche a chiedermi di lavorare il sabato mattina e acconsentii perché avevo paura che mi ritenessero debole o peggio, negligente.

Così quando potevo chiedevo aiuto ai miei genitori, ma abitavano lontano e facevano quel che potevano. Qualche altra volta chiedevo ad un’amica. Il mio compagno faceva il possibile ma aveva orari peggiori dei miei. Non riuscivamo proprio a gestire le giornate con tranquillità.

La goccia fece traboccare il mio vaso di frustrazione e infelicità, quando in una riunione venni praticamente insultata da un mio collega perché avevo ritardato con la consegna di un lavoro. Mi disse che ero poco utile. Il mio capo si aggregò alle critiche, dicendo che non si poteva andare avanti così, che capiva che avevo un figlio ma dovevo dare di più e solo perché ero madre non potevo esimermi dai miei doveri. E sempre con quella sua finta gentilezza che mi dava la nausea.

Uscii da quella riunione con le lacrime agli occhi. Le cose continuarono a peggiorare finché dopo quasi un anno, decisi che non ce la facevo più e consegnai le dimissioni.

Questa è la storia di una donna che chiameremo Marta, nome inventato per proteggere la sua privacy.

Marta è solo una delle 29.879 lavoratrici madri con figli sotto i 3 anni, che nel 2016 hanno lasciato il lavoro o risolto il contratto, secondo il rapporto dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro. Il 78% dei dimissionari del 2016, sono state mamme. 8 su 10. Un numero allarmante.
Di queste, circa il 45% ha sostenuto apertamente che la motivazione del recesso fosse l’impossibilità di conciliare vita familiare e lavorativa. Il mancato accoglimento dei figli al nido, il costo elevato dell’assistenza del neonato, e la mancanza dei nonni, sono tre cause molto comuni tra le donne che scelgono di lasciare il lavoro.

In un Paese che ha un tasso di occupazione femminile al 48% contro una media europea del 62%, il fatto che le madri si licenzino non è proprio una notizia incoraggiante. Non è solo difficile, come donna, ottenere lavoro, dopo tutte quelle domande scomode dei colloqui tipo “vuoi avere figli?” oppure “hai intenzione di sposarti?”. È anche più difficile tenerselo dopo che si sceglie di diventare madre. Perché il numero di nascite è in continuo calo e ci si lamenta di ciò, ma non si fa assolutamente nulla per mettere le donne nella condizione di essere madri senza opprimerle, e anzi fornendo i giusti mezzi per combinare figli e lavoro.

Marta ha trovato la sua strada diventando imprenditrice di se stessa.

Oggi lavoro in proprio, faccio l’interior designer. Ho iniziato con difficoltà. I primi anni ho praticamente pagato solo tasse allo stato. Avevo poco lavoro e io e il mio compagno abbiamo dovuto fare molti sacrifici. Ma la gioia di un figlio, l’amore e la determinazione ci hanno portati lontano ed oggi sono soddisfatta. Anche se l’amaro in bocca non è sparito. Credo che una madre non dovrebbe essere costretta a mettersi in proprio solo perché come dipendente non ha diritti. C’è ancora così tanto da fare per le donne, in Italia.

Ma come possiamo combattere queste ingiustizie?

Anzitutto, parlandone. Nei mesi peggiori, Marta si è confidata solo con il compagno. Parlarne con amici e parenti ci permette di svuotarci delle nostre ansie e condividere il nostro dolore. Potremmo trovare anche qualcuno che ha avuto problemi simili al nostro e potrà darci consigli preziosi, oltre che sostenerci.

L’aiuto di un professionista può aiutarci a combattere.

Scegliere di dare voce al nostro dissenso, ci potrà permettere di cambiare le cose. Non solo per noi, ma per tutte le donne in quella situazione. Affidarsi ad un avvocato specializzato in diritto del lavoro è un passo che molte non fanno, perché temono ritorsioni al lavoro. Ma è proprio per questo che bisogna farlo. Per denunciare chi si permette di ledere i nostri diritti oltre che la nostra dignità.

Non pensare che sia colpa tua.

L’unica “colpa” che hai è il bisogno primordiale di essere felice. Se non lo sei, c’è qualcosa di sbagliato. Il lavoro è un ambito sacro della nostra vita perché ci permette di esprimere i nostri talenti. Chi ce lo nega perché scegliamo di essere anche madri, non ne ha il diritto.

Quando ha detto al lavoro di essere incinta, Marta è stata emarginata e ha subito pensato che fosse normale. Ma non lo è. Essere demansionata perché si aspetta un figlio è una mossa comune, le aziende vogliono spesso “prepararsi a fare senza una risorsa”. Ma che ci si prepari è un conto, che si emargini la “risorsa” è un altro. Nei mesi prima della maternità, Marta avrebbe dovuto essere doppiamente preziosa per lo studio perché avrebbe dovuto organizzare il suo lavoro e formare chi avrebbe preso il suo posto durante la sua assenza. Invece, il suo capo, ha scelto la strada più semplice, ossia fare a meno di lei e di una sostituta, scaricando tutto su altri colleghi e demansionandola.

Cerchiamo dei punti di incontro

La maternità è una scelta, non un obbligo, né una colpa. Essere una mamma lavoratrice un diritto. È importante però, questo sì, trovare un punto di incontro con il capo e i colleghi affinché la nostra scelta non vada a gravare sui nostri colleghi, in modo responsabile e facendo valere i nostri diritti, rispettando però anche i nostri reali doveri, che non ha nulla a che vedere con accettare mobbing o pressioni come quelle subite da Marta.

Ricordiamoci che il lavoro non è la vita.

È una frase che oggi Marta si ripete spesso. Il lavoro è una parte della nostra vita, ma ci sono cose più importanti. Le nostre passioni, per esempio. La nostra famiglia, gli amici, l’amore. Quando al lavoro va male, spesso la frustrazione non fa vedere le cose chiaramente. Si diventa infelici e ci si dimentica di tutto il resto che attende solo di essere vissuto. Non cadiamo nel baratro. Cerchiamo, con l’aiuto di chi ci vuole bene, di separare il lavoro dalla vita privata. Ricordiamoci delle nostre priorità. Solo così possiamo superare i momenti difficili al lavoro.

Non facciamo di tutta l’erba un fascio.

Generalizzare è sempre sbagliato. Ci sono tante realtà lavorative splendide, che supportano le madri con aiuti, convenzioni e benefit. C’è chi apre il nido aziendale, chi concede permessi senza problemi, chi è lieto di accordarsi per un parti-time nei primi anni del figlio, chi offre di lavorare da casa. Chi crede nel valore delle persone e ha capito che se una dipendente è felice, produrrà di più e otterrà maggiori risultati, facendo crescere tutta l’azienda. Chi è certo che la quantità di ore di lavoro sarà sempre meno importante della qualità.

Non rinunciamo ad avere figli.

“Vorrei avere un figlio, ma in questo momento il lavoro non me lo consente”.

Quante volte abbiamo sentito una donna dire queste parole? Tante, forse troppe. Se sogni di essere madre, porta avanti con coraggio il tuo sogno. Non rinunciarci mai. Per il capo o i colleghi che non tengono a te, non sarà mai il momento giusto per permetterti di fare un figlio. Il momento giusto lo devi scegliere tu.

La discussione continua nel gruppo privato!
Seguici anche su Google News!