Perché devo sentirmi in colpa per essere diventata madre?

Da donna che ha avuto un aborto spontaneo, riesco a comprendere perfettamente quella sensazione di frustrazione, quel sentirsi abietti perché non si è capaci di gioire per la felicità di una persona cara, ma al tempo stesso non in grado di frenare l’impulso di invidiarla - e per alcuni tratti anche odiarla - perché ha qualcosa che a noi in quel dato momento sfugge dalle mani. Ma essere madri non è una colpa, e non si fa un torto a chi non può diventarlo.

Qualche tempo fa mi è capitato di andare a cena con una coppia di amici molto cari e di lunghissima data, che io e mio marito non vedevamo da qualche tempo.

L’improvvisa lontananza e la scarsità di comunicazioni ci hanno dapprima lasciato perplessi, poi feriti, ma è spettato a me il compito di provare a spiegare a mio marito il motivo di questo comportamento così improvvisamente distaccato. Questa coppia ha infatti saputo da qualche mese di non poter avere figli, per un problema grave e – a quanto pare – non risolvibile, mentre noi abbiamo avuto un bambino da qualche mese.

La notizia della mia gravidanza è arrivata praticamente in concomitanza con quella della loro infertilità, e dal quel momento la crepa nel nostro rapporto ha cominciato a emergere.

Tutto comprensibile, del resto: non è facile sorridere e gioire per le belle cose altrui, anche quando si tratta dei tuoi migliori amici, mentre tu dentro stai soffrendo come un cane e ti chiedi perché sia successo proprio a te, di volere un figlio e di non poter riuscire ad averlo.
È questo che ho spiegato a mio marito, invitandolo ad avere pazienza, a comprendere il suo amico, a evitare di fargli ulteriormente male – seppur in maniera involontaria, ovviamente – facendogli domande sull’argomento se era evidente che lui non avesse voglia di parlarne o parlandogli continuamente di nostro figlio.

E così abbiamo fatto, rispettando il loro dolore silenzioso, evitando domande che potevano sembrare indiscrete, limitando al massimo le informazioni sul nostro bambino che nel frattempo era nato, cresceva e faceva progressi ogni giorno, anche se naturalmente ci avrebbe fatto piacere condividerle con loro, per non ferirli o farli sentire “sbagliati”, cosa che questa società ti spinge a pensare spesso di te stesso/a, se non sei in grado di procreare.

Fino a quando proprio loro ci hanno proposto di trovarci a cena insieme, dopo svariati mesi di silenzio, invito che abbiamo accettato di buon grado, ovviamente.

La cena si è però tramutata in una delle situazioni più imbarazzanti in cui mi sia capitato di trovarmi nella mia vita: era come se fossimo letteralmente a due tavoli separati, il loro, con loro due impegnati a parlarsi del lavoro, dei gatti e della spesa da fare, e il nostro, pieno dei giochi di mio figlio, il passeggino parcheggiato di fianco, e con me che a un certo punto ho dovuto dargli la poppata serale nel corso della cena.

Era come se ci fosse una sorta di “gelo” fra di noi, un disagio palpabile, da parte nostra, e un distacco voluto e razionale, da parte loro. E, fate bene attenzione, non parlo del fatto di non aver rivolto uno sguardo, o una parola, per tutta la durata della cena, a nostro figlio: perché, parliamoci chiaro, non è un obbligo per nessuno fare dei complimenti ai bambini, e neanche provare simpatia per loro per forza di cose.

Si possono anche ignorare e fingere che non siano al tavolo, e il genitore, per quanto se ne possa dispiacere, deve farsene una ragione, perché è nel pieno diritto dell’altra persona non sentirsi in dovere di fare gli occhi dolci al piccolo o storpiare il proprio linguaggio per parlargli con quelle parole tanto stupide che tutt*, ahimé, usano quando hanno a che fare con un lattante.

Quello che mi ha colpito, in realtà, è stato il loro distacco verso di noi: non una parola per chiedere , ad esempio, del nostro, di lavoro, delle nostre giornate, o più semplicemente di come stessimo, che a volte è semplicemente quello di cui abbiamo bisogno tutt*, genitori e non.

Soprattutto, ciò che mi ha colpito è che, sulla strada del ritorno, in macchina, con mio marito di fianco e mio figlio nel sedile posteriore, nel suo seggiolino, ripensando all’andamento della serata ho sentito su di me, per la prima volta, un senso di colpa pesantissimo: quello di essere un genitore.

E allora mi sono chiesta: perché tutt* parlano così tanto (e giustamente!) del senso di colpa che la società vuole instillare nelle childfree o nelle childless, ma nessuno parla mai del senso di colpa che chi è senza figli non per scelta mette, più o meno consapevolmente, addosso a madri e padri?

Quando mi sono confrontata con un’amica su questo argomento, spiegandole del profondo senso di delusione che quella serata mi aveva lasciato, quest’ultima mi ha detto una cosa che condivido, ma solo in parte: “Non c’è un tempo per metabolizzare il dolore, e nessuno è obbligato a essere felice per te per forza”.

Ed è ineccepibile, anzi posso dire, da donna che ha avuto un aborto spontaneo, di comprendere perfettamente quella sensazione di frustrazione, quel sentirsi abietti perché non si è capaci di gioire per la felicità di una persona cara, ma al tempo stesso non in grado di frenare l’impulso di invidiarla – e per alcuni tratti anche odiarla – perché ha qualcosa che a noi in quel dato momento sfugge dalle mani.

Per intenderci, nelle settimane successive al mio aborto ho avuto una cara amica, incinta, che mi riempiva la chat WhatsApp di foto delle sue ecografie, dei vestitini che comprava per il suo bambino e non faceva che parlarmi delle nausee, dell’insonnia, della pancia che cresceva, dei calcetti che sentiva dentro il suo ventre. Avrei potuto non rispondere più ai suoi messaggi, silenziare la chat o persino mandarla a fanculo, ma il fatto che io avessi appena perso una gravidanza non dipendeva dal suo essere incinta, e quando la razionalità si è riappropriata di me ho capito che non potevo fargliene una colpa.

Lo stesso valeva per i nostri amici in quella circostanza: ero rimasta interdetta dal loro comportamento non in virtù di una mera pretesa egoistica e narcisistica, quella del dire “Se sei mio amico devi necessariamente essere felice per me”, obbligando implicitamente l’altro a mettere da parte la propria sofferenza per sforzarsi di mostrarsi compiaciuto e di condividere la gioia con me a tutti i costi, né di focalizzarsi esclusivamente su quanto sia bello e bravo e simpatico mio figlio (e qui, vedasi le ragioni elencate poc’anzi).

Io mi sono sentita in colpa per qualcosa per cui, di fatto, non ho merito, che è quella di essere diventata madre. Perché, casomai non fosse abbastanza chiaro, essere genitori non è un merito, ma è pura questione di casualità e di una buona dose di culo, un po’ come nascere in una famiglia benestante o nascere bionde, alte e con gli occhi azzurri.

Non c’è un “merito” nel diventare madri o padri, e di conseguenza non c’è un demerito nel non poterlo diventare. Per questo non trovo giusto far sentire in colpa chi è diventato genitore, come se il tuo non poterlo essere dipendesse, anche solo in parte, da me o da chi lo è.

Mio figlio fa parte di me, della mia vita, e accetto che tu decida di ignorarlo per tutto il tempo in cui siamo insieme perché in qualche modo ti ricorda una ferita che ancora non hai metabolizzato (e non sai neanche se riuscirai mai a farlo) e che brucia ancora troppo. Ma al tuo sacrosanto diritto di non sentirti obbligato a provare per forza tenerezza o affetto per lui deve corrispondere il mio di sentirmi libera di parlarti di lui, o di uscire a cena con te portandolo, senza sentirmi messa ai margini, esclusa dalla conversazione – che nessuno ha mai detto debba vertere in maniera esclusiva sul tema figli e affini, peraltro – e in qualche modo “colpevolizzata” per il mio status di genitore.

Invece a quella cena è capitato che mi sia scappata una frase tipo “Quanto è monello questo bambino!” e di aver ricevuto un’occhiataccia da mio marito, come se con quelle parole avessi urtato la loro sensibilità. Quindi che dovrei fare, “nascondere” mio figlio o il fatto di averlo, non menzionarlo, far finta che non esista? Quello non è un atto di sensibilità nei confronti di chi non ha un figlio.

Perché io sono ANCHE un genitore, oltre a un sacco di altre cose, e questo lo devi mettere in conto, esattamente come io metto in conto che tu sei una persona che si porta dentro un dolore grande, che però non è certo la presenza di mio figlio a sbatterti in faccia.
E se a qualcuno venisse mai in mente di chiedermi “Ma non potevi lasciare tuo figlio a casa?”, la risposta è no: o meglio, certo che lo posso fare, ma deve essere una mia scelta, non una sorta di “aut aut”, una conditio sine qua non per poter vedere gli amici. Perché mio figlio non è un trofeo da mostrare all’occorrenza, e quindi da relegare a casa se diventa “scomodo”, ma è parte integrante della mia vita, e proprio perché non lo posso rinnegare a seconda dell’evenienza non è non portandolo a cena con i suoi genitori che posso lenire il dolore dei nostri amici o rispettarlo di più. Anzi, mi sembrerebbe solo un deplorevole atto di commiserazione, un po’ come a dirgli “Almeno non lo vedete, e si sa, occhio non vede, cuore non duole”.

Io, come mio marito, a oggi siamo questi: una donna, un uomo, una moglie, un marito, una lavoratrice, un lavoratore, un’amica, un amico, e anche dei genitori, e non c’è una delle cose che ho elencato che ci definisca più delle altre. Quindi, come nessuno mi fa sentire in colpa perché lavoro, perché sono sposata, perché ho degli amici e delle amiche, non capisco perché mi dovrei sentire in torto per essere un genitore nei confronti di chi non lo è. Per qualcosa che non è dipeso da me, dalla mia volontà, dalla mia scelta, ma solo dalla fortuna.

Voglio bene ai miei amici, e in cuor mio spero sempre che un giorno il loro desiderio di maternità e paternità venga esaudito, con il progresso scientifico, con l’adozione, con il percorso che loro riterranno più opportuno per se stessi. Ma nel frattempo, non posso far sparire mio figlio, e il pensiero di perdere il rapporto con loro perché il mio bimbo rappresenta una ferita troppo grande per loro, o perché in qualche modo ci “incolpano” di avere qualcosa che loro non hanno non mi fa stare bene.

Ma, anche se così fosse, rispetterò la loro scelta, pur non condividendola, e li aspetterò comunque, fino al giorno in cui si sentiranno pronti e capiranno (e non è detto o scontato che accada) che il nostro essere genitori non ci ha reso “solo genitori”, ma che siamo anche le stesse persone di prima, quelle a cui hanno fatto da testimoni di nozze, con cui sono cresciuti e con cui si può parlare di molto altro, che non sia
maternità o paternità.

La discussione continua nel gruppo privato!
Seguici anche su Google News!