Secondo una narrazione fiabesca ed errata, gravidanza e post parto dovrebbero rappresentare il periodo più bello di una vita di una donna. Naturalmente è uno stereotipo, perché non funziona così: non solo si tratta di un’esperienza diversa per tutte coloro che la affrontano, ma ci sono anche premesse e conseguenze differenti per ciascuna.

E c’è un fatto che non possiamo tralasciare: il suicidio in gravidanza e post-partum è un fenomeno con dei numeri, bassi (in un certo senso) ma significativi. Perché ogni numero non è un numero, ma una persona.

Di solito, il periodo considerato maggiormente a rischio è quello del terzo trimestre, mentre le donne più a rischio sono quelle non sposate e con bassa scolarità. Il che si traduce, in Occidente almeno, in alcuni segmenti della popolazione femminile più emarginate da contesti socio-culturali medio-alti (per ragioni di classe sociale, istruzione, provenienza geografica o etnia). Secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità, 2,3 donne ogni 100mila bambini nati vivi si suicida in gravidanza o entro il primo anno dal parto. Viene considerato un evento raro, ma non rarissimo: è più frequente della morte della partoriente per emorragia ostetrica. I metodi usati dalle mamme o future mamme per togliersi la vita sono più violenti rispetto agli altri suicidi femminili in generale e a quelli della popolazione maschile.

Nei casi di suicidio nel periodo della gravidanza o del post parto, l’Istituto Superiore di Sanità individua delle premesse ricorrenti, che portano a cercare di prevenire il fenomeno: in altre parole, se si conoscono le condizioni in cui queste donne vivono e che possono essere foriere di disagio, forse possiamo salvare alcune vite. Alcuni di questi fattori possono apparire in base alla nostra percezione davvero molto comuni: si comprende quindi che il rischio c’è e non possiamo far finta di non vederlo.

Tra i fattori che si ritiene possano influenzare il rischio di suicidio tra donne incinte e puerpere ci sono la gravidanza indesiderata, l’aborto precedente o la morte di un figlio, eventuali complicazioni ostetriche o neonatali, aver subito abusi durante l’infanzia o da parte del partner, la perdita del lavoro, precedenti di tentato suicidio personale o suicidi in famiglia, eventuali disturbi psichiatrici, mancanza di aiuto esterno (famiglia, amici, istituzioni). Il rischio è inoltre alto quando la donna in attesa è molto giovane o viene separata dal suo bambino. Oltre a questo si cerca di indagare per l’eventuale presenza di pensieri di morte o sentimenti di disperazione, utilizzo di sostanze stupefacenti, lutti recenti, isolamento sociale, impulsività, disturbi del sonno e l’idea di fare del male al nascituro.

Se più fattori di rischio sono compresenti, il pericolo per l’incolumità della donna aumenta. Diminuisce invece nel caso che alcuni dei pensieri negativi che abbiamo citato abbiano un carattere transitorio. Si ritiene che le donne in maggior pericolo siano quelle che hanno minori capacità di adattamento o che hanno un approccio passivo nei confronti dei cambiamenti. A questo proposito è fondamentale avere accanto a sé un supporto come famiglia o amici, per scongiurare il rischio.

Per quanto riguarda uno di questi fattori, ovvero la violenza domestica, i dati sono allarmanti. È un luogo comune che le donne incinte e le puerpere siano maggiormente protette in questo periodo delicato della loro vita. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, invece, il 25% delle donne subisce violenze, fisiche o psicologiche, in gravidanza. I dati italiani sono più bassi, ma forse non sono del tutto indicativi, perché da sempre esistono pudori e paure nel denunciare. Secondo l’Istat, il 10% delle donne ha subito violenza domestica prima, durante e dopo la gravidanza: per il 70% di esse, l’11% ha assistito a un’escalation di violenza, mentre per il 58% la violenza è rimasta invariata durante l’attesa. Per il 6% delle donne la violenza domestica è iniziata proprio in gravidanza.

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