"Sono una moglie e una mamma felice. Ma un altro figlio ora non lo voglio, e ho abortito"

Per le donne è difficile abortire senza sentirsi stigmatizzate. Ancor più quando per loro l'Ivg rappresenta un'ancora di salvezza. Per questo è importante offrire una narrazione diversa, come quella che ci arriva dalla testimonianza di una donna che abbiamo deciso di pubblicare, in anonimo.

Le leggi sull’aborto sono costantemente messe in discussione; se in Paesi come Ungheria, Polonia e in alcuni Stati USA il diritto a interrompere volontariamente la gravidanza è stato quasi del tutto vietato – senza contare che in altri, come Malta, non c’è mai stato -, anche in Italia la legge 194 del 1978 viene periodicamente posta sotto la lente d’ingrandimento dalla propaganda politica e dai movimenti pro life.

L’ultima proposta choc arriva dal Municipio VI di Roma, ed è quella di far ascoltare il battito del feto alla donna che si presenta per avere una Ivg.

Non è il primo affronto che il nostro Paese fa nei confronti della legge che tutela l’aborto: nel 2020 la giunta leghista guidata da Donatella Tesi, in Umbria, cancellò la delibera che permetteva di eseguire l’aborto farmacologico in regime di day hospital, ripristinando i 3 giorni di ricovero.

I danni che vietare l’aborto ha fatto e continua a fare sono sotto gli occhi di tutti, non solo in termini di maggiore ricorso alla clandestinità, con tutti i rischi annessi. Una recente ricerca condotta negli USA da una ONG ha rilevato come, nel periodo tra luglio 2022 (ovvero dopo l’abrogazione della Roe v Wade del 1973, che regolamentava l’aborto, e la scelta della Corte Suprema di concedere a ogni Stato di decidere se e come mantenere in vita l’Ivg) e gennaio 2024 si siano registrate quasi 65 mila gravidanze conseguenti a stupri.

Chi contesta il diritto di una donna di interrompere una gravidanza indesiderata, per qualunque motivo, lo fa generalmente in virtù di convinzioni di ordine morale e religioso, omettendo spesso di ricordare che nessuno – e con questo intendo non solo chi non è dotato di utero, ma anche qualsiasi altra donna – abbia il diritto di sindacare su qualcosa di estremamente individuale.

Alla luce di questo assunto, così spesso sottovalutato, abbiamo scelto di dare voce alla testimonianza di una donna, che conosciamo, che ha voluto raccontarci il suo aborto volontario. Lo facciamo anche per offrire una narrazione diversa della Ivg e per legittimare sentimenti ed esperienze diverse. Perché c’è chi prende con sofferenza la scelta di interrompere una gravidanza, ma anche chi, come la donna che ci ha scritto queste righe, vive questa possibilità come una fonte di sollievo. E se lo stigma sociale si abbatte, in generale, su chi abortisce, ancor di più lo fa rispetto alle donne che non se ne pentono.

Chi scrive questa introduzione, prima di avere suo figlio, ha avuto un aborto spontaneo (ne ho parlato nell’articolo qui sotto), che le ha lasciato uno strascico inimmaginabile di dolore, fisico e psicologico. Eppure, ho letto e accolto queste righe senza giudizio alcuno, mandando idealmente un abbraccio alla donna che le ha scritte, e che ha voluto restare anonima, perché nessuno, con l’eccezione del marito, sa della scelta che ha fatto.

Queste sono le sue parole.

“Quando ho visto il risultato del test di gravidanza la mia reazione non è stata quella della prima volta.
La prima volta che ho letto quella parola sul display, ‘incinta’ sono stata invasa da un vortice di emozioni bellissime: ho pianto, ho riso, mi è venuta voglia di urlarlo al mondo intero.
La seconda volta sapevo prima ancora di leggere cosa il test aveva da dirmi quello che avrei voluto fare.
Non volevo portare avanti quella gravidanza. E quando il display ha confermato quello che temevo, mi sono sentita vuota, senza emozioni.

Molto spesso la gente si figura nella mente un profilo preciso della donna che va a interrompere una gravidanza: giovane, di scarsa cultura, molto probabilmente immigrata, quasi indigente.

Ecco, io sono una donna bianca, laureata, con un’ottima professione, una discreta cultura, economicamente agiata, con un matrimonio che si definirebbe felice e una figlia cercata, voluta e amatissima. Sono sicuramente un soggetto anomalo per i profiler dell’Ivg, quantomeno rispetto all’immaginario canonico.

Allora perché volevo interrompere quella gravidanza, arrivata non per disattenzione, incuria o indifferenza, ma in un momento di ciclo mestruale estremamente irregolare dopo la fine dell’allattamento, con buona pace di chi in maniera molto prosaica ritiene che ‘nel 2023 le gravidanze non ‘capitino”?
Molto banalmente potrei dire che non era il momento. Ero diventata mamma da poco, troppo poco per farmi avere voglia di ripartire da zero dovendo occuparmi ancora di una bambina che da appena qualche mese aveva imparato a camminare, da sola, senza aiuti, con un marito fuori tutto il giorno per lavoro, nessun nonno nelle vicinanze e un lavoro che avevo ritrovato felicemente dopo la maternità e che non volevo dover mettere nuovamente in stand by.

Come fanno spesso le persone che si trovano davanti a un bivio, ho provato a fare un bilancio: crescere insieme due bambini piccoli, senza aiuti, accettare di ricominciare da zero con notti insonni, allattamento, contro la ‘bellezza’, unanimemente o quasi considerata tale, di regalare un fratello o una sorella a mia figlia (come se fosse scontato che fratelli e sorelle si amino sempre e comunque, ma questa è un’altra storia). Bene, i lati negativi sovrastavano in abbondanza quelli positivi.

Eppure, non riuscivo a non sentirmi in colpa. Non riuscivo ad accettare, dentro di me, l’idea di essere serena e perfettamente consapevole di voler interrompere la gravidanza.

Ma ho capito di aver semplicemente interiorizzato delle dinamiche che socialmente richiedono alle donne di provare colpa, di fronte a una scelta del genere. Ne ho parlato con una cara amica, in quella che è stata più una sorta di auto-analisi che mi ha reso cosciente di quanto fossi influenzata da quello che pensavo la società si aspettasse da me: ovvero di essere tremendamente contrita e affranta all’idea di dover prendere una decisione simile, e profondamente combattuta tra sentimenti e possibilità.

‘So già che qualunque sarà la mia decisione, me ne pentirò’, così ho esordito nel mio discorso, che però, andando avanti, si è trasformato semplicemente in ‘È quello che è giusto per me’.

La mia amica mi ha detto una cosa che è stata per me la svolta, nel senso che è come se il velo di Maya fosse finalmente caduto rivelandomi la verità, nuda e cruda.

Devi liberarti da quello zainetto di colpa che ti stai mettendo addosso per forza.

Era così. Da quando sospettavo di essere incinta, prima ancora di averne la conferma, non avevo fatto altro che caricarmi di quello che le persone avrebbero potuto pensare di me, delle aspettative di cui, come donna e già madre, la società mi aveva investita e fatta portatrice.
Ho pensato che avrei fatto un torto a chi di figli non ne può avere, salvo poi ricordarmi che la capacità di riprodursi non è un merito, ma una pura questione di fortuna. Ho pensato che ci sono tante donne come me che fanno un figlio a brevissima distanza da un altro, e che nonostante tutto ‘ce la fanno’, per poi pensare che se è così per tante, non è detto che vada bene e sia la soluzione giusta per tutte. Quantomeno, non lo era per me.

Ho anche pensato che qualcuno avrebbe potuto dirmi che stavo rinunciando a un’opportunità, salvo poi ricordarmi che abortire oggi non significava che non avrei voluto o avuto più figli in assoluto, qualora fosse arrivato un giorno in cui avrei preso in considerazione l’ipotesi di averne un altro. Solo che non era quello, il frangente.

Ho cercato in tutti i modi di sentirmi in colpa per una scelta che in realtà mi appariva solamente salvifica, rasserenante, sicura, pensando che, se avessi esternato i miei pensieri, qualcuno mi avrebbe definita ‘egoista’; ‘senza senno’; ‘ingiusta’. Una merda.
Ma finalmente messa da parte e accettata quella fase, c’era un altro problema.

Perché le donne che vogliono abortire non devono combattere solo con lo stigma sociale che le vuole all’unanimità dipingere come la feccia da disprezzare, e con il costante alito del senso di colpa sul collo, ma anche sull’oggettiva difficoltà di avere accesso a un aborto sicuro, ancora oggi, in Italia, nonostante la 194, la legge più bistrattata del nostro intero ordinamento, perennemente messa in discussione da chi
vorrebbe imporre alle donne di farsi venire dei ripensamenti calcando la mano sul sentimentalismo offerto dal battito del feto (che battito non è) e chi la ritiene ‘eccessivamente generosa’ verso le madri e altamente discriminante per i padri, i quali non avrebbero diritto di parola in merito, come sostenuto nel corso della recente conferenza del Centro Studi Machiavelli promossa a Montecitorio dalla Lega, i cui relatori hanno probabilmente dimenticato due punti fondamentali:

  •  che non è detto che una donna che scelga di abortire non si sia confrontata con il partner, trovandosi d’accordo sulla decisione da prendere (nelle famiglie cosiddette ‘funzionali’ tanto sponsorizzate da una certa parte politica generalmente funziona proprio così, col dialogo, e non in maniera unilaterale).
  • che in ogni caso l’uomo non è dotato di utero.

I dati dell’Associazione Coscioni e dell’indagine Mai Dati, condotta dalle giornaliste Chiara Lalli e Sonia Montegiove, relativi al 2021 evidenziano come, in 10 regioni, il tasso di obiettori di coscienza negli ospedali superi ancora l’80%.

Anche il mio ginecologo privato si è rivelato essere un obiettore; dopo avermi visitata, mi ha liquidata piuttosto rapidamente dicendo che se volevo procedere alla Ivg avrei dovuto chiedere a un medico del consultorio di rilasciarmi il certificato per accedervi. Ho dovuto chiedere a due altri ginecologi, prima di avere il certificato.
Pensavo che la sera prima di recarmi in ospedale per ricevere la prima pillola sarei stata nervosa, titubante, preda di un’angoscia particolare. Nulla di tutto ciò.
Ero serena, allegra. Abbiamo cenato insieme e abbiamo giocato con nostra figlia, io e mio marito, le abbiamo fatto il bagnetto e l’abbiamo messa a letto impostando la sveglia per la mattina dopo, sabato, quando alle otto mi aspettavano in ospedale.

Idem la seconda volta. La sola preoccupazione che ho avuto in quei giorni è stato per il pensiero del dolore fisico che avrei potuto sentire dopo aver preso anche la seconda pillola, quella che determina l’espulsione dell’embrione. Ma più che vera paura, diciamo che, da persona pianificatrice e tendenzialmente pessimista, era un aspetto che avevo preventivamente messo in conto.
I minuti di attesa nella stanza di ospedale in cui mi hanno messa, seduta su una poltrona, ad aspettare che le pillole potessero avere qualche effetto sono stati, ancora una volta, sereni, rilassanti. Come se fossi lì per un semplice prelievo del sangue, o per un controllo di altro tipo. Ancora una volta, non sentivo nessuno di quei sentimenti che mi aspettavo, per cultura imposta, che una donna che ha appena interrotto una gravidanza dovesse sentire. Però, mi aspettavo che il medico che mi ha visitata, o le ostetriche che mi hanno dato la pillola e passavano a controllarmi, mi giudicassero. Giudicassero la mia serenità, la trovassero anormale.

Mi sono resa conto che avevo anch’io delle aspettative su me stessa. Mi aspettavo di dover soffrire a tutti i costi.

Ma non è stato così. È stato… Semplice. Fisicamente. Psicologicamente. E ancora una volta mi sono chiesta se fossi ‘normale’, se non fossi una persona incapace di provare emozioni, se non fossi spaventosa perché le sole cose che sentivo erano il sollievo di aver posto fine a quella storia e la serenità di non dovermene più preoccupare.
Me lo sono chiesto perché, ancora una volta, non rispondevo alle aspettative che la società aveva riposto su di me: di essere per forza pronta ad accogliere un altro figlio, e di essere profondamente pentita per la scelta di non averlo fatto.

Io conosco il dolore di quelle donne che desiderano un figlio che non arriva; lo conosco perché, che ci crediate o no, per tanto tempo l’ho cercato senza che arrivasse, tanto che a un certo punto ho pensato di non poter mai rimanere incinta. Ma questo, e ve lo dico col cuore in mano, non può, in alcun modo, rendermi responsabile del dolore altrui, né costretta a caricarmelo sulle spalle.
Non posso portare avanti una gravidanza che non desidero perché spinta da un senso di dovere nei loro confronti, per non essere giudicata ‘ingrata’ e ‘sprecona’, perché questo non darebbe comunque a quelle donne la possibilità di avere figli, quindi di fatto non lenirebbe la loro sofferenza. Né la scelta di rinunciare a un altro figlio può annullare il dolore provato quando lo volevo e non ne arrivavano, perché i contesti, le situazioni, le condizioni cambiano, e di conseguenza anche una scelta che si ritiene giusta in un determinato momento può non essere la stessa di un altro.

Molto spesso le persone amano generalizzare, buttando tutto nel calderone senza fermarsi ad analizzare la situazione personale di ciascuno di noi; e da lì nasce e si insinua il giudizio nei confronti di chi ‘osa’ discostarsi da quell’insieme.
Nel mio caso

  •  sono madre, quindi dovevo tenere quel figlio perché tanto già avrei saputo come fare.
  • ho cercato un figlio a lungo senza averne, quindi quel secondo figlio era ‘un dono di Dio’ a cui non potevo dire di no.

Le cose non stanno proprio così, sono molto più complesse, e se proprio non posso avere empatia – che è complicata da trovare – amerei tanto, ma veramente tanto, che le persone, quantomeno, non giudicassero cose che non conoscono. Perché io, come nessuna, è tenuta a fornire spiegazioni per le sue scelte al mondo, ma il costante senso del giudizio che ci portiamo appresso da sempre ci influenza talmente tanto che finiamo con il giudicarci anche noi se ci allontaniamo da quello che è l’immaginario collettivo, se le nostre reazioni, pensieri, azioni, sono diverse da come ci saremmo aspettate, condizionate da come la società ci ha detto che dovremmo comportarci in determinate situazioni. Con pentimento e sofferenza, nel caso dell’aborto.

Ebbene, la mia è stata un’interruzione di gravidanza voluta e scelta con consapevolezza, fatta con serenità e senza ripensamenti. Eppure, aspetto di sentirmi massacrata da chiunque leggerà questo testo, e di essere dipinta come una donna ‘senza valori, amorale’, o, peggio, come un’assassina“.

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