"Come si spiega la morte a un bambino autistico, come mio figlio, o meno?"

"Francesco si è messo a piangere, quasi inconsolabile. Non sono riuscita a capire il perché finché non l’ho visto, di fronte alla tavola apparecchiata, andare dietro alla sedia sulla quale si sedeva il nonno e sussurrare: «Nonnino». Gli ho ripetuto degli angioletti. Non piangeva, ma era triste. E credo che non se la sia bevuta neppure per un momento la storia degli angioletti".

Come si spiega la morte a un bambino (che sia autistico o meno)?
E soprattutto quando è in grado di capire la morte?

Ho un ricordo lontano del funerale del nonno di mio cugino, che aveva a sua volta due cuginetti bambini: uno, di 8 anni, piangeva e comprendeva che non avrebbe più visto l’anziano parente, l’altro di 4 non aveva capito proprio nulla. Sono arrivata a sottovalutare la comprensione dei bambini a causa di quell’episodio, ho sottovalutato la capacità di comprensione di Francesco, mio figlio – che come capita con gli autistici ad alto funzionamento, è molto intelligente.

Francesco non aveva neppure due anni quando morì mia zia. Era una zia cui ero molto affezionata e Francesco, non avendo lei figli e quindi nipoti suoi, era la luce dei suoi occhi. La andavamo spesso a trovare quando era in vita – tranne l’ultimo periodo in cui stava davvero troppo male e ho risparmiato al bimbo quella visione. Dopo la sua morte, lui è andato spesso a cercarla in camera sua, sulla poltrona davanti al televisore. È stato in quel periodo che è iniziato il suo mutismo selettivo. Francesco smise di pronunciare di colpo molte parole, inclusa «mamma».

La prima neuropsichiatra che abbiamo incontrato mi chiese se gli avessimo spiegato cosa fosse accaduto alla zia. «Cosa avete detto? È volata in Cielo? Sono queste le cose che si dicono di solito» mi disse. Risposi che non gli avevamo detto nulla: nessuno di noi pensava che un bambino sotto i due anni potesse comprendere un concetto complicato come la morte. La faccenda cadde lì, almeno fino allo scorso aprile, quando è morto il nonno, il papà di mio marito. All’epoca Francesco aveva più di tre anni e la terapia stava funzionando molto bene.

Era poco prima che iniziassimo con i principi di terapia Aba, per cui chiesi consiglio alla psicologa con cui, per il momento, stavamo facendo terapia cognitivo-comportamentale e parent training. Mi disse di dire a Francesco che il nonno stava «cantando in Cielo con gli angioletti». Mi è sembrato lì per lì un concetto ancor più complicato rispetto alla morte. Quando muore qualcuno, diciamo che è andato in un posto migliore. Io avrei detto a Francesco che il nonno era in Messico o a Corfù – due luoghi che lui può facilmente riconoscere dalle calamite sul frigorifero e che io trovo decisamente dei posti allegri, vacanzieri.

Comunque, per la prima volta in casa del nonno dopo la sua morte, Francesco andò a cercarlo, esattamente come per la zia. E a quel punto gli parlammo degli angioletti. Non mi sembrò convintissimo. La cosa gliel’abbiamo ripetuta più volte poi, in altre occasioni in cui siamo entrati in quella casa per il trasloco, per prendere i giochi d’infanzia di mio marito e portarli a casa nostra, per esempio. Finché la casa non è stata affittata a una coppia deliziosa con cui abbiamo stretto amicizia.

Una domenica, questa coppia ci ha invitati a pranzo. Nell’andare a casa loro, Francesco si è messo a piangere, quasi inconsolabile. Non sono riuscita a capire il perché finché non l’ho visto, di fronte alla tavola apparecchiata, andare dietro alla sedia sulla quale si sedeva il nonno e sussurrare: «Nonnino». Gli ho ripetuto degli angioletti. Non piangeva, ma era triste. E credo che non se la sia bevuta neppure per un momento la storia degli angioletti.

Per cui non resta che interrogarmi su me stessa, sul mondo di noi adulti e quello dei bambini, indipendentemente dal fatto che abbiano una diversa abilità o meno.

È come se fossimo due universi completamente scollati e forse noi adulti, per egoismo, non riusciamo a metterci nei panni dei più piccoli. Egoismo, possiamo chiamarlo così, o forse cinismo. Perché non riusciamo a ricordare com’era, non riusciamo a ricordare come possa amare incondizionatamente un bambino, avvertire l’assenza, sentire la mancanza. E allora forse il miglior parent training di tutti è questo: provare a mettersi nei suoi panni.

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