Far Piangere i Bambini: Sì o No? Ecco le Possibili Conseguenze

Una delle domande più difficili che ogni mamma si trova a fronteggiare è: devo lasciar piangere il mio bambino o no? Dare una risposta univoca è veramente complicato, perché le teorie sull'argomento sono tantissime. Eccone due opposte che potrebbero, speriamo, aiutarvi a scegliere la strada giusta per voi.

Lasciar piangere i bambini sì o no? Il dilemma è di quelli spinosi e, a quanto pare, neppure di facile soluzione, perché le teorie, le ricerche e gli studi proposti sono praticamente infiniti e ciascuno sembrerebbe condurre le mamme in direzioni totalmente opposte.

Da un lato ci sono l’ansia, la paura ed il naturale dispiacere di ogni genitore di lasciare il proprio bambino piangere, con i timori  per possibili ripercussioni sul suo sviluppo futuro che anche la scienza sembra comprovato; dall’altro la sensazione, per le mamme ed i papà, di essere finiti in una sorta di “trappola” dove le esigenze del piccolo vengono prima di tutto, anche del proprio riposo e, in generale, della propria salute, cosicché, pur di non far strillare il pupo, si è disposti a passare notti intere in bianco, fino (e oltre) allo stremo delle forze.

Trovare un punto di equilibrio è davvero difficilissimo e, come abbiamo accennato, in realtà non esiste una risposta univoca al problema. Anche gli studiosi sono divisi fra quanti sostengono, attraverso ricerche e prove, che la teoria del “cry-it-out“, ovvero del “lascialo piangere” sia la più efficace, e quelli che invece sottolineano le conseguenze negative riportate nella crescita dal bambino per aver subito un “abbandono” nel momento del pianto.

A chi affidarsi, dunque, per capire quale strada scegliere in questa difficilissima situazione?

Da una parte, abbiamo la teoria sviluppata recentemente da un gruppo di studiosi australiani che si sono fatti paladini del partito del “lascia piangere il tuo bambino“. Vediamo come si è sviluppata la loro ricerca e quali sono le conclusioni a cui sono giunti.

Lasciarlo piangere: sì

Fonte: Web
Fonte: Web

Michael Gradisar e il suo team di studiosi hanno raggruppato 43 coppie di genitori accomunate dallo stesso problema, ovvero bambini, di età compresa tra i 6 e 16 mesi, con evidenti disturbi del sonno. I ricercatori hanno diviso il campione in tre gruppi: da un lato, sono stati messi i genitori che hanno controllato costantemente i propri piccoli, mentre gli altri sono stati “distribuiti” in questo modo:

  • Graduale allontanamento: questa forma di controllo del pianto del bambino, chiamata spesso “cry-it-out” prevede che i genitori lascino la stanza in cui dorme il piccolo un minuto dopo averlo messo a letto, e lentamente allunghino il tempo di attesa prima di rientrare per controllarlo; all’inizio due minuti, poi cinque, sei, e così via.
  • Anticipo dell’ora della nanna o “Ferberizing”: questa tecnica è conosciuta con questo nome per via dello studioso che l’ha teorizzata nel 1985, Richard Ferber, e consiste nel mettere a letto il piccolo, ancora sveglio, anticipando gradualmente l’orario di messa a nanna: all’inizio, i genitori sistemeranno il bambino già addormentato nella culla, ma mano a mano lo faranno quando ancora non dorme, in modo che impari a prendere sonno autonomamente, lasciandogli un oggetto (un ciuccio, o un pupazzo) che lo tranquillizzi. Ferber aggiunge inoltre di lasciarlo comunque nel lettino anche se dovesse risvegliarsi ed iniziare a piangere, per dargli modo di imparare ad “autoconsolarsi”.

Dopo tre mesi di prove, i ricercatori di Gradisar hanno rivelato che nel gruppo dell’allontanamento graduale i bambini avevano imparato ad addormentarsi 15 minuti prima rispetto a quelli i cui genitori avevano deciso di controllarli continuamente, mentre i bambini delle coppie che avevano sperimentato il “Ferberizing” si assopivano 12 minuti prima dei bambini tenuti sotto controllo. Inoltre, i bambini del gruppo “cry-it-out” sono risultati essere quelli che, alla lunga, avevano accusato il minor numero di risvegli ed avevano invece dormito più a lungo.

Gradisar ritiene che entrambe le tecniche siano ottime, anche perché, a distanza di un anno, nessun bambino aveva mostrato un maggiore attaccamento ai genitori dovuto alla paura dell’abbandono né mamme e papà avevano rilevato problemi comportamentali più evidenti rispetto a quelli che rientravano nel gruppo del controllo. Con questo però, Gradisar non intende sostenere che un metodo sia migliore dell’altro, ma certamente può considerare che “i genitori tendono a scegliere la tecnica dell’anticipo dell’ora della nanna qualora siano in dubbio fra le due opzioni” e sottolinea anche come “quello che non emerge dai nostri studi, ed è forse la cosa più importante, è la sensazione di pace mentale che si respira nelle camere da letto delle famiglie che studiamo“.

Se da un lato però Gradisar, i suoi studiosi e i “discepoli” di Ferber sono accesi sostenitori della teoria del “lascia piangere”, soprattutto se si desidera riacquistare un minimo di equilibrio interiore e godere di un po’ di relax, c’è anche chi continua ad evidenziare i grossi problemi a livello psichico che il lasciar piangere potrebbe comportare per i bambini.

Lasciarlo piangere: no

Fonte: Web
Fonte: Web

Tra i detrattori della teoria di Ferber e delle altre del “cry-it-out” troviamo soprattutto Darcia Narvaez, professoressa di psicologia all’Università di Notre Dame, le cui conclusioni sono state riprese dal sito thestir.cafemom.com: i bambini lasciati piangere, prima di tutto, sono più stressati, come era già emerso in altre ricerche dedicate a questo delicato tema; una ricerca condotta dall’Università del North Texas ha infatti evidenziato come i bambini osservati, di età compresa tra i 4 e i 10 anni, presentassero livelli di cortisolo nella saliva (un ormone la cui produzione è indice di forte stress da parte dell’organismo) alti anche se erano già passati tre giorni da quando erano stati mandati a dormire da soli, a testimonianza di quanto fossero stressati. Tale stress, se notevolmente accentuato, può avere ripercussioni negative sulle sinapsi, uccidendole, e perciò provocare danni irreparabili allo sviluppo corretto del cervello, lasciando campo aperto all’insorgere di ansia e depressione per via dell’instabilità delle connessioni cerebrali.

Il pianto prolungato potrebbe anche incidere sul quoziente intellettivo, tanto che una ricerca avrebbe dimostrato che i bambini lasciati piangere da 0 a 3 mesi avrebbero sviluppato poi, a 5 anni, un Q.I. inferiore alla media di ben 9 punti. I possibili danni si rifletterebbero poi anche sulle capacità sociali (problemi di iperattività, antisocialità e scarsi risultati scolastici), sulla salute, e sulla possibilità concreta di sviluppare dipendenze più avanti. Sebbene l’essere lasciati soli durante il pianto venga interpretato come un modo per imparare ad “autoconsolarsi” Narvaez sostiene che l’effetto ottenuto sia esattamente quello opposto, perché in questo modo i bambini capiscono solo che per ottenere qualcosa devono urlare, e diventino più facilmente aggressivi, petulanti o infelici.

Certo, come abbiamo detto all’inizio trovare un punto di equilibrio è veramente complicato, e la scelta per i genitori è estremamente difficile e complicata; nessuna mamma o papà vorrebbero lasciare il proprio bambino in una situazione spiacevole, ma è anche vero che non si può rinunciare del tutto alla propria vita per avere il controllo del piccolo 24 ore su 24. Forse ognuno dovrebbe ricercare da sé la strada più adeguata rispetto alle proprie esigenze familiari, imparando a trovare un punto d’incontro che possa far vivere serenamente la maternità (e la paternità, naturalmente) e la vita insieme al proprio bebè.

 

La discussione continua nel gruppo privato!
Seguici anche su Google News!