La condizione delle donne sul lavoro è sempre piuttosto precaria: con i salari e gli accessi alle posizioni dirigenziali che pendono ancora fortemente a favore degli uomini, le “pari opportunità” restano, ad oggi, più un auspicio su cui ancora c’è tanto da lavorare che una concretezza.

Per le donne spesso i problemi non si esauriscono “solo” in termini di minor guadagno o di maggiori difficoltà nel raggiungere posizioni di prestigio in azienda, né in quelli di una minor credibilità professionale data, il più delle volte, da stereotipi tanto infondati quanto, evidentemente, solidi, ma anche e soprattutto quando si mette in gioco il discorso famiglia, e quello maternità, soprattutto.

Se una delle domande più odiose, e sinceramente inutili, che molte donne si sentono rivolgere in fase di colloquio è “Lei ha dei figli? Intende averne”, come se l’essere o no madre fosse una discriminante fondamentale per capire se assegnare un posto di lavoro, mentre l’essere o no padre non inficiasse minimamente le chance di assunzione, dopo una gravidanza le cose, per molte, non migliorano, anzi subiscono peggioramenti evidenti, fino ai casi più estremi, quelli di perdita dell’occupazione

Ma è davvero possibile perdere il posto di lavoro perché si mette al mondo un figlio? La risposta, ahimé, è sì. Non sempre, va precisato, per stretta volontà dei datori, ma per scelta delle stesse neo mamme. Scelta che è, tuttavia, praticamente obbligata, dato che in questo momento, nel nostro Paese, la mancanza di infrastrutture adeguate (parliamo degli asili nido), o la difficoltà ad accedervi, unita a un più generale spostamento degli equilibri parentali che vedono una responsabilità maggiore delle madri rispetto ai padri (non a caso, i congedi parentali concessi agli uomini sono sfruttati pochissimo), rendono difficile, se non impossibile, per le donne continuare a lavorare.

Nel 2016, come riportato da un articolo del Fatto Quotidiano, ci sono state ben 35.003 tra dimissioni e risoluzioni consensuali. Le dimissioni sono state 33.791, le risoluzioni consensuali inece rappresentano soltanto il 3% del totale, a dimostrazione del fatto che i casi di licenziamento siano, nonostante tutto, piuttosto limitati. Anche se una recente normativa europea del febbraio 2018, esaminando un caso spagnolo, ha dichiarato lecito licenziare le donne in gravidanza (Causa C 103/2016), fermo restando la libertà, per ogni stato, di prevedere forme di tutele più forti per le dipendenti madri e gestanti (infatti in Italia il licenziamento è vietato, a meno che non si tratti del collettivo)  29.879 sono state, nel 2016, le lavoratrici madri che hanno lasciato il lavoro o risolto il contratto, concentrate soprattutto in due fasce di età, tra i 26 e i 35 anni (17.737) e tra i 36 e i 45 anni (8.764). Tra le motivazioni per cui si rinuncia al lavoro, c’è in primo luogo “la persistenza di una maggiore difficoltà di conciliazione tra vita familiare e lavorativa”. Insomma, per quanto se ne dica, la tanto ostentata apertura mentale rimane solo una bella utopia sulla carta perché, a conti fatti, per le donne si pone molto spesso il dilemma, se scegliere di continuare a lavorare, rinunciando a crescere i figli o semplicemente non avendone, o se fare la mamma a tempo pieno.

Se in alcuni paesi sono state proposte soluzioni estreme, come i turni di gravidanza in Giappone, che però non sembrano più un’ipotesi tanto astratta nemmeno da noi, e in altri invece le donne, pur di lavorare, sono persino disposte ad andare incontro al rischio di abortire, si capisce che il quadro è tutt’altro che confortante.

Ci sono poche eccezioni, come quelle dei paesi scandinavi, dove si sta cercando di eliminare del tutto la figura della “donna casalinga”; ma è un estremo che, se mal interpretato, è comunque sbagliato e facilmente fraintendibile, perché il problema che si pone non è “eliminare” uno status, ma dare l’opportunità alle donne di scegliere, senza costringerle verso una direzione obbligata. Che si voglia fare la casalinga, la mamma a tempo pieno o la donna in carriera, a ciascuna dovrebbero essere dati l’opportunità e i mezzi per decidere in autonomia.

Ancor più drammatico, se possibile, rispetto al rinunciare a un lavoro dopo la maternità, è organizzarsi per riuscire a trovarne un altro, laddove si voglia rientrare nel circuito. E non solo perché, come spiegato, i datori di lavoro tendono a storcere il naso di fronte a una donna-mamma (E quando poi il bimbo si ammala? E se ti prende il raffreddore? E quando fa la recita? Queste le domande che, almeno mentalmente, un superiore si fa, traducendole in quante giornate di ferie dovrà dare alla mamma, mai al papà, chissà perché), ma anche perché spesso è complicato ripresentarsi nel mondo professionale dopo un lungo periodo di assenza. In cui magari gli skills richiesti sono cambiati e vanno quindi aggiornati, le competenze non sembrano più tanto adeguate e gli affari puntano ad altro. Molte donne si sentono inevitabilmente, completamente tagliate fuori, e non riescono a ricollocarsi. Eppure, sono le stesse che, pur senza saperlo, hanno una marcia in più. Perché imparare a gestire non solo la propria vita, ma anche quella di qualcun altro, di una creatura che dipende da te in tutto e per tutto, non è poi tanto dissimile da quello che fanno i migliori manager d’azienda in quanto a complessità e responsabilità, anzi…

Questo post Linkedin di Silvia Vianello, professionista del Marketing inserita da Forbes tra le 100 donne italiane più influenti, chiarisce perfettamente un concetto di cui le donne non sono ancora del tutto consapevoli.

[…] Era emotivamente distrutta che non trovava lavoro da un anno e continuava a ripetersi che era perché aveva 10 anni di buco nel CV perché aveva fatto 3 figli – scrive Silvia parlando di una donna che voleva rientrare nel mondo del lavoro, trovando davanti a sé tantissime porte chiuse – Le ho spiegato che nessuno le avrebbe mai dato un lavoro così. Ho suggerito: invece di dire che hai 10 anni di buco, prova a dire ai colloqui che con 3 bimbi: 1. Hai imparato a gestire budget limitati 2. Sai gestire continui imprevisti 3. Sai come far funzionare ed incastrate perfettamente un team di 5 persone 4. Hai imparato ad organizzare più eventi contemporaneamente 5. Hai sviluppato una straordinaria intelligenza emotiva e ti basta un solo sguardo a capire le persone 6. Sai essere un ottimo acquirente e scegli al meglio i prodotti e i servizi giusti. Digli che saprai utilizzare al meglio tutto questo nel tuo nuovo incarico.

Con il suo hashtag #unlavoropertutti Silvia vuol far capire che un’opportunità esiste, per ciascuno di noi. E che le mamme non devono considerarsi “solo” mamme, ma donne straordinarie, che hanno acquisito capacità incredibili che le ha rese più forti, più mature, in grado di affrontare ostacoli diversi e di lottare per raggiungere degli obiettivi. Lo svilimento che talvolta la società sembra aspettarsi dalle donne che hanno avuto figli, la banalizzazione del loro compito, non deve esistere: essere mamma è un lavoro durissimo, che rende una donna forgiata ad affrontare mille difficoltà. È questo che dovrete scrivere sul prossimo curriculum. Che siete forti, e pronte a dimostrarlo sul posto di lavoro.

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