"Il tuo corpo non funziona, donna": il dolore delle mamme dopo un aborto spontaneo
Due aborti spontanei e tanta indifferenza vissuta nel momento del dolore. Questa è la toccante esperienza di Chiara.
Due aborti spontanei e tanta indifferenza vissuta nel momento del dolore. Questa è la toccante esperienza di Chiara.
Nel passato ci siamo occupat* spesso di violenza ostetrica, cercando di far capire quanto il problema sia tutt’altro che raro, visto che, dal 2003 a oggi, un milione di donne ha denunciato di esserne stata vittima solo nel nostro Paese (fonte Osservatorio dei Diritti – 2019); e naturalmente abbiamo anche cercato, con il nostro lavoro, di approfondire le tematiche del lutto dietro agli aborti spontanei, raccogliendo anche testimonianze importante come quella dell’organizzazione CiaoLapo Onlus.
Abbiamo letto un post su un gruppo chiuso di Facebook che raccoglieva, in una testimonianza molto sofferta ma estremamente lucida, entrambi gli argomenti, legati tra loro, e abbiamo deciso di chiedere all’autrice di approfondire con noi la sua esperienza. Questo è quello che Chiara Grasso, etologa, autrice per Edizioni Lindau, fondatrice e presidente di ETICOSCIENZA – Associazione di Etologia Etica, ci ha scritto.
“Centinaia di migliaia di donne in Italia ogni anno vivono questo calvario che non si dice, di cui non si parla. La nostra cultura ci insegna a tenercelo per noi, come se fosse una vergogna.
L’aborto spontaneo.
Succede a talmente tante donne e talmente spesso che la cosa passa inosservata come se fosse la prassi. È prassi perdere un bambino, come se facesse parte del programma. Ma la psicologia ce lo insegna: se non ne parli, lo stai negando di importanza e attenzione, ed è un tema terribilmente importante per non dargli ascolto e farlo scivolare via, nel silenzio. Per noi. Per le donne. Per le coppie. È talmente comune che nella cultura in cui siamo cresciuti, per scaramanzia non si annuncia nemmeno la gravidanza nel primo trimestre (mesi più a rischio), perché se va male almeno non devo dirlo a tutti. Come se il male fosse minore, se a viverlo siamo noi, da soli. Come se la società non fosse pronta ad ascoltare una mamma che non ha potuto abbracciare suo figlio o un papà che deve essere forte per stare vicino alla donna che ama.
Sono Chiara, ho 28 anni e vorrei essere mamma, insieme a Christian, il mio compagno di vita, di lavoro e di sofferenza.
Io e Christian ci siamo laureati insieme in Scienze Naturali e abbiamo viaggiato tanto, per difendere gli animali in giro per il mondo e ora ci siamo fermati, con l’obiettivo di costruire il nostro di nido. Viviamo alle porte di Torino in una casetta in mezzo al bosco dove vorremmo vedere gli animali correre insieme ai bambini.
Durante il primo lockdown, a marzo scorso, la meravigliosa notizia che, dopo solo tre tentativi, ero incinta. La sorpresa, l’emozione. Camminavamo sopra il cielo, le stelle e gli astri. E i nostri genitori con noi. Nell’ingenuità della prima volta. Ricordo ancora l’emozione della prima ecografia. Mi ero vestita di tutto punto, tutta rosa con una lunga treccia di lato. Mamma e Christian con me. Mi tremava l’anima e non vedevo l’ora di conoscere la mia creatura. Prima ecografia, non si vede niente. Riproviamo tra una settimana. Niente ancora. E poi ancora niente. Dopo 4 ecografie di buio, la diagnosi: uovo chiaro. Lo sconforto. La delusione. La paura. Perché? E poi la pillola RU. Il maledetto ospedale con i suoi medici insensibili. La dottoressa che mi fa l’ecografia frettolosa, mentre parla al telefono con una mamma che partorirà tra 2 giorni. Quella pillola e quel bicchiere di plastica, ‘Butti giù la pillola e ci vediamo tra due giorni, se sta male vada al pronto soccorso’. ‘Non è un’aspirina. Datemi informazioni. Cosa mi farà, avrò male, cosa mi succederà?’. ‘Signora, non è l’unica qui. C’è la coda. Legga il foglio che le abbiamo dato. Ora deve andare. Ingoi la pillola e vada a casa’.
La mancanza di umanità tra le ostetriche, i ginecologi, gli operatori sanitari. Le mie domande senza risposta. I crampi, il sangue. Il dolore fisico che supera quello dell’anima. Essere un numero e non una persona. Il sangue misto alle lacrime. Ci riproveremo, non fa niente. Ho i traumi, piango. Ma ce la faremo. Insieme.
5 gennaio 2021: test di nuovo positivo, dopo pochi mesi di tentativi. Che meraviglia. Di nuovo. ‘Sì ok, ma piano questa volta ad illuderci ok? Non diciamolo a tutti come l’altra volta!’
Attendiamo con ansia la prima ecografia. Questa volta sono in cura dal super mega ginecologo esperto del reparto di gravidanze a rischio dell’ospedale.
L’emozione, l’ansia, la paura di trovare di nuovo quell’ecografia nera. La paura che quella camera gestazionale fosse vuota.
Ma no! Il battito c’è. E pure forte! Il nostro bambino questa volta c’è! Voliamo di nuovo sopra le nuvole. ‘Questa volta ce l’abbiamo fatta amore. Aspettiamo marzo che finisce il trimestre e poi finalmente tiriamo un respiro di sollievo.’
Due giorni dopo inizio a non avere più male al seno. Che bello, non ho nemmeno più nausee. Mah… Un po’ mi stranisce la cosa… ‘Chri, dovrei chiamare l’ostetrica del consultorio?’. ‘Ma no. Tranquilla. Anzi, meglio.’
Due giorni dopo inizia a tornarmi la libido, fino ad allora completamente sparita, e non ho più gli sbalzi di caldo e freddo delle settimane prima.
‘Buongiorno ostetrica, mi scusi ma io non ho più sintomi, sto incredibilmente bene… Tutto ok? Posso fare un’eco?’
‘Chiara, non capisco la domanda. In gravidanza si sta bene! Stai tranquilla e viviti la gravidanza senza ansia’.
Mia mamma, le mie amiche… Tutti mi dicevano la stessa cosa: ‘Dai Chiara, che palle. Che ansia che hai. Vivi serena!’. Mi sentivo pazza. Ascoltavo il mio corpo come ci hanno sempre insegnato a fare, e sentivo che c’era qualcosa che non andava. Lo sentivo. Così come mi sentivo che ero incinta, senza bisogno di fare il test, un mese prima.
Ma no. Sei solo un’ansiosa e queste paure non esistono.
Venerdì mattina una lieve e quasi trasparente perdita rosa chiaro.
‘Chri, guarda…’
‘Ma basta Chiara! Non è niente!’
No, non mi piace… Così vado al pronto soccorso.
Triage, pre-triage e infermiera: ‘Signora, saranno perdite di impianto. Tranquilla. Le facciamo comunque un’ecografia di prassi, ma stia serena’.
Entro in sala ecografia. Un medico mi fa stendere. Il cuore mi batte in gola. Quei secondi che sembravano secoli dentro il mio cuore. Guardavo il monitor, sperando di vedere qualcosa, ma non so nemmeno cosa. Poi le sue parole, fredde, piombate dal cielo come una lama.
‘Mi spiace signora, non c’è più battito. Si rivesta e le spiego la procedura’.
‘La so già la procedura, è la seconda che mi succede’.
Avrei voluto ridere. Ridere, urlare e rompere tutto. Mi veniva solo da ridere.
Una spada aveva trafitto il mio cuore e dentro di me c’era solo un pensiero: ‘Lo sapevo. Me lo sentivo. Io lo sapevo. Scusa, bambino mio per non averti ascoltato. Io lo sapevo’. Era di 7 settimane. Poche, fragili, 7 settimane.
Intanto ti si annebbia la vista, ti gira la testa, le gambe tremano. No, non di nuovo. Non di nuovo.
La tua mente ripete questa frase in loop, mentre ti rimetti quegli slip maledettamente sporchi di sangue.
Questa volta ci speravi. Ci credevi. Questa volta avevi fatto tutto il possibile, tutto giusto. Avevi preso tutte le medicine che ti avevano dato i super medici esperti.
Cos’è che non ha funzionato?
Il tuo corpo, donna. Il tuo corpo non riesce a tenere quel cuore dentro di sé, nonostante i tuoi sforzi.
Il tuo corpo non funziona. È questo il pensiero che soffoca la mente. ‘Non funziono’.
E cosa c’entra questo con l’appena passata festa delle donne? Cosa c’entra con i diritti delle donne?
C’entra che mai, mai in vita mia io ho ricevuto tanta violenza come in quei momenti. Quando lì, distesa, impotente, con le lacrime agli occhi, non sei una persona, una donna, una madre. Sei un numero.
‘Sà, una è andata. Avanti l’altra. Veloce’, dice il medico all’infermiera, una volta finita quella mia rapida e sbrigativa ecografia maledetta. Mentre scrive il referto davanti a te, pallida e shockata, il dottore ridacchia con la collega, come se fossimo alla posta e mancasse solo il francobollo, aspettando la ricevuta del pacco appena spedito.
La violenza ostetrica esiste. La violenza medica esiste. Da donne, da uomini, da quegli operatori sanitari che dovrebbero accompagnarti in questo lutto e che quello che fanno è solo ripetere un copione in modo freddo, distaccato, quasi scocciati. Non un ‘mi dispiace’, non un sorriso, una carezza sulle spalle, non una parola di conforto. E tu lì, hai mille domande ma la voce non esce e te ne vai, vuota. Sola.
‘Sei giovane, dai dai, sii forte che la prossima volta andrà meglio’, questo è quello che il mondo ti sa dire, quando esci da quell’ospedale con un foglio di carta, e ci eri entrata con tuo figlio in grembo. Allora abbozzi un sorriso, mentre la gola ti brucia dal dolore.
Ed ecco che questa festa l’ho dedicata a tutte quelle donne che hanno sentito quella frase. La dedico a tutte le mamme che non lo sono state, non lo sono più, o che non lo possono essere. A tutte le donne che si sentono difettose. Questa violenza non è meno pericolosa delle altre violenze di cui si parla a voce alta. La violenza ostetrica è subdola, nascosta, accettata e giustificata ‘Mica possono provare empatia e sofferenza per tutto, i medici. Sono persone anche loro’. Oh no, io non chiedo che soffrano con me. Io chiedo che, però, comprendano la mia sofferenza e la rispettino. La sappiano riconoscere e ascoltare. Che rispettino il mio corpo e la mia anima. Questo testo che sto scrivendo lo voglio dedicare a tutte le donne che si sono sentite sole in quel momento, quando accovacciate nel letto, il loro petto è sprofondato.
No donna, non sei sola. Dell’aborto spontaneo si parla poco. Si parla poco del male che fa, della poca empatia che c’è, della violenza ostetrica, del pianto dei bambini appena nati nella stanza affianco mentre tu stai pisciando il tuo nel cesso. Si parla poco di quanta violenza ci viene fatta. Come se ‘tanto poi passa’.
Ma non passa. Non passa mai. E la paura ti tiene sveglia la notte. Paura di non poter essere più mamma. Paura di essere sbagliata. Ma i giorni passano e tu diventi più forte. La coppia diventa forte, nei silenzi, negli sguardi, nelle mani gelide. A volte ti tocchi la pancia, come d’abitudine. Una lacrima scende, poi sorridi e ti dai forza da sola, cercando di non odiare il mondo là fuori, dove chiunque e ovunque ti spiattella in faccia quello che vorresti essere e che non puoi. Non ora.
Ora sono qui, sul letto, con il sangue e le lacrime di nuovo.
Lacrime diverse però. Lacrime di paura.
Sarò mai mamma? Inizio a cercare associazioni per l’adozione intanto.
Ti chiedi se ti basterà mai, però, un bambino -non tuo-
Ti chiedi se ti basteranno i cani.
Ti chiedi se Christian si merita una donna difettosa.
Ti senti difettosa. Se fosse per Madre Natura io, senza farmaci e punture, non sarei mai mamma. Non mi nascondo dietro questa cosa.
Voglio affrontare questa cosa.
Mi iscrivo a gruppi Facebook dove altre mamme mi dicono che dopo 3, 4, 5 aborti, ora abbracciano i loro bambini e questo mi dà forza.
Non mi voglio arrendere. Finché il corpo mi darà energia io voglio farcela.
Per me, per Christian. Per noi.
Ma ho paura.
Ho paura del prossimo test positivo. Cosa sarà di me e delle mie ansie? Come vivrò la gravidanza? In allerta come se stessi camminando in savana tra i leoni? Come vivrò le ecografie? Per fortuna ci sono poche, ma speciali e fondamentali persone e associazioni che aiutano le donne e le coppie ad attraversare il lutto prenatale. E sono associazioni di volontari che dentro questa caverna di ignoranza e banalizzazione, ci sono passati e hanno deciso di dire basta al silenzio, aiutando gli altri.
E allora, questo è un appello. Un appello al mondo. Alle donne che hanno perso una gravidanza, agli uomini che soffrono in silenzio. Un appello alle famiglie di queste anime fragili. Un appello ai giornalisti. Parlatene. Parliamo insieme di questo macigno. Se ne parliamo, peserà meno a chi deve affrontarlo. Se si parla dell’aborto spontaneo e del male che fa, chi lo deve vivere soffrirà meno la solitudine. È un appello alle ostetriche, ai medici e agli infermieri. Davanti a voi, in quel momento, avete una donna che ha appena perso un pezzo di sé. Avete una donna, che fino a qualche secondo fa, era una mamma. Siate gentili. Accarezzatele il ginocchio mentre è lì distesa, inerme e fragile. Accarezzatele l’anima con lo sguardo rassicurante di chi può farlo. Le vostre parole sono lame. Ma potrebbero essere piume.
Ed è un abbraccio, questo. Un abbraccio a quelle coppie che sentono il cuore che pesa troppo. Non fatevi portare via dal dolore. Non lasciate che la paura soffochi la speranza. Non siete soli.
Ehi, donna. Non sei sola. Il tuo, di battito, c’è ancora e io posso sentirlo!“
Giornalista, rockettara, animalista, book addicted, vivo il "qui e ora" come il Wing Chun mi insegna, scrivo da quando ho memoria, amo Barcellona e la Union Jack.
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