Tra i 6 e i 12 anni, se un bambino o una bambina mostra degli atteggiamenti rabbiosi con una frequenza superiore al normale per un periodo superiore a 6 mesi, si parla di disturbo oppositivo provocatorio. Non si tratta semplicemente di capricci, di piccole ripicche, ma di veri e propri circoli viziosi che possono colpire una percentuale di bimbi compresa tra il 5 e il 10% – quindi tutt’altro che poco significativa. Sapere e capire bene di cosa si tratta è importante, soprattutto per i genitori: se loro sottovalutano la questione potrebbero anche peggiorare questo disturbo, concentrandosi sugli atteggiamenti negativi del bambino e ignorando quelli positivi.

Disturbo oppositivo provocatorio, cos’è?

Disturbo oppositivo provocatorio
Fonte: Pixabay

Il disturbo oppositivo provocatorio è un disturbo della condotta che colpisce appunto i bambini – anche se ci sono rari casi limite nell’adolescenza inoltrata. Come si legge su Studi Cognitivi, l’incidenza è maggiore nelle famiglie in cui c’è un genitore che presenti un disturbo antisociale, oppure che abbia avuto problemi di dipendenza, schizofrenia o disturbi comportamentali come l’iperattività o il disturbo da deficit dell’attenzione. I bambini che ne sono colpiti manifestano emozioni come rabbia e hanno un atteggiamento indisponente soprattutto nei confronti degli adulti, ma lo potrebbero avere anche nei confronti dei propri coetanei.

Disturbo oppositivo provocatorio, il test

Non esiste un vero e proprio test, quanto un’osservazione del comportamento unita a dei fattori di rischio per la diagnosi. Questi fattori possono essere di temperamento (ovvero una discrepanza tra il temperamento del bimbo e quello del genitore, come per esempio all’interno di famiglie eccessivamente rigide), fattori biologici (cioè quando sono compromessi nel paziente il sistema di inibizione del comportamento, che tende a valutare le conseguenze di un’azione, e il sistema di attivazione del comportamento, che tende a cogliere le occasioni, oltre ai processi cognitivi per mantenere l’attenzione), fattori contestuali (cioè relativo all’educazione che i genitori cercano di impartire e che risulta troppo rigida). Possono però contare anche i modelli adulti che mostrano aggressività ed eventi stressanti, oltre alla mancanza di stimoli di conoscenza.

Anche i rischi sono chiari, dicevamo, tanto più che i medici possono analizzarli per una diagnosi precoce. Tra i fattori di rischio ci sono la mancanza di tolleranza alla frustrazione, l’alta reattività alle emozioni, un’educazione troppo rigida, una bassa frequenza cardiaca o anomalie cerebrali. Inoltre, chi soffre di un disturbo oppositivo provocatorio scarica sugli altri le proprie colpe, tende a meditare vendetta rispetto a torti che pensa di aver subito e utilizza la rabbia come mood principale con una frequenza ben più alta di quanto si potrebbe fare alla propria età o anche prima. Di solito, i bambini che non mostrano atteggiamenti rabbiosi in tenera età, è difficile che sviluppino questo disturbo.

Disturbo oppositivo provocatorio, strategie e interventi

Disturbo oppositivo provocatorio
Fonte: Pixabay

Intanto, dicevamo, è importante cercare di ridurre al minimo i fattori di rischio laddove sia possibile, per esempio eliminando i modelli negativi e aggressivi o riducendo la rigidità dell’educazione, puntando su piccoli riconoscimenti per buoni comportamenti che non possono e non devono passare inosservati. Di solito si ricorre alla terapia cognitivo-comportamentale per comprendere cosa avvenga esattamente nel bambino e perché si scateni in lui questa opposizione rabbiosa e vendicativa.

Per quanto riguarda la cura si devono affrontare quattro fasi, naturalmente ricorrendo alla psicoterapia: la fase psicoeducativa (in cui il bimbo impara i meccanismi della rabbia), la fase di acquisizione delle abilità (per apprendere nuove strategie e gestire diverse situazioni potenzialmente rischiose), la fase di addestramento (in cui il bimbo mette in pratica tutto quello che ha imparato). Come spiega l’Istituto Beck, ci sono anche dei compiti a casa: tutto quello che il bimbo apprende o mette in pratica non si esaurisce nel rapporto con lo psicologo, ma deve essere esercitato anche e soprattutto mentre è a casa. Solo in questo modo le buone pratiche possono diventare abitudini.

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